La liturgia della Chiesa cattolica, tra le numerose
analisi con le quali la si potrebbe studiare, molte delle quali più pertinenti
e urgenti di questa, è ormai trattata (e celebrata) con i criteri e i metodi
dell’intrattenimento. Per questo motivo parlo di intrattenimento liturgico. Tutto
questo non è figlio del caso, ma, da una parte, di una studiata volontà, e dall’altra
di una specifica indifferenza a cui va aggiunta una buona dose di mediocrità
che non manca mai quando si deve procedere verso il degrado.
Al di là dei singoli casi specifici, sui quali si
potrebbero scrivere trattati per l’ipocrita contraddizione di principi ripetuti
come slogan e mai applicati o, peggio, applicati in maniera ridicola, c’è un’idea
comune che sottintende questo esercizio dell’intrattenimento liturgico. Esercizio
che rende, soprattutto a noi fedeli, figli e vittime dell’intrattenimento
liturgico.
Perché figli
Siamo innanzitutto figli, perché in questa cultura,
in questa mentalità, in questo copione scenico siamo stati educati e cresciuti
e questo consideriamo vero, sano, addirittura santo. Tanto che consideriamo splendido
il mediocre e pensiamo di essere difensori del bello quando condanniamo le
esagerazioni, che però sono solo le esasperazioni della mediocrità, non quelle
della santità. Ecco allora che ragioniamo sulla liturgia come se essa fosse un
format televisivo, uno spettacolo da guardare, con – una delle tante – l’ipocrita
eterogenesi dei fini dell’actuosa partecipatio, della partecipazione attiva. Il
fulcro e il cuore dell’intrattenimento liturgico è lo showman, il sacerdote,
che anima e intrattiene (appunto) il pubblico con discorsi emotivante (forse)
coinvolgenti ma che, altrettanto ovviamente, fanno acqua dal punto di vista
prettamente dottrinale (ma si prefiggono altri obiettivi). Ecco allora le
trovate geniali, il coinvolgimento emotivo, le battute continue, l’esaltazione
di sé stessi, il muoversi sul palco (quello che una volta era il presbiterio:
uno spazio, appunto, riservato ai presbiteri dove oggi si alternano le comparse
dello show), il mantenere alta la concentrazione con continui e repentini cambi
di scena. E, soprattutto, l’assenza di silenzio. Una liturgia, un’azione sacra,
contempla il silenzio, la meditazione, la preghiera, il raccoglimento, uno
spettacolo no. Esso, al massimo, può sopportare delle pause pubblicitarie che,
nell’intrattenimento liturgico, divengono quelle parti fisse della liturgia
cattolica (liturgia della parola, preghiere, consacrazione) delle quali non
sono ancora riusciti a liberarsi per mantenere una parvenza (nulla di più) di
cattolicità.
Perché vittime
Ma siamo, soprattutto, vittime perché non è questo
che ci salva. E non ci salva, innanzitutto, per rimanere nei termini dell’intrattenimento
liturgico, perché al massimo distrae, sposta l’obiettivo da quello che dovrebbe
essere (Dio) a quello che dicono dovrebbe essere (noi stessi) a quello che
realmente è (il prete-showman). Ma poi, ancora più gravemente e seriamente,
siamo vittime perché non è l’intrattenimento liturgico a santificarci. Esso è
una più o meno mediocre caricatura di qualcosa di molto lontano dalla serietà
prima ancora che dalla santità. Esso è un rito sociale, non divino. È una
tradizione culturale, non ecclesiale. E si sente tradizionalista e difensore
della tradizione chi custodisce le invenzioni, l’intrattenimento liturgico, l’esaltazione
del prete in un rito, il Novus Ordo (anche se oggi nelle parrocchie è celebrato
altro, non formalizzato in documenti magisteriali) che doveva essere – ancora l’ipocrita
eterogenesi dei fini – meno clericale di quello, cosiddetto, antico. Siamo vittime
perché non abbiamo potere. Siamo vittime perché chi ama la fede e la Verità non
usa la violenta arroganza dei novatori. Siamo vittime perché questa è la merce
avariata presente nella maggior parte delle realtà ecclesiali (chi più chi
meno) e quei pochi che ancora pensano che essere cristiani sia una cosa seria,
fanno fatica, sbeffeggiati e perseguitati dai maestri della novità che soffrono
di vari problemi nei confronti del passato. Siamo vittime perché così siamo
condannati all’oblio e a non santificarci. Dio, quello vero, saprà rimediare,
ma l’intrattenimento liturgico rimane una mentalità da condannare, per quanto
chi dovrebbe farlo è connivente o indifferente perché preoccupato d’altro
piuttosto che di Dio.
Si continua a denunciare, sperando che qualcuno
voglia provare a capire piuttosto che emarginare chi, come il bigotto che
scrive, rimane umiliato nella propria intelligenza e ferito nella propria fede
ad assistere a spettacoli umani (al di là della loro bellezza) laddove si dovrebbe
fare di tutto per permettere al divino di penetrare. Ma tra chiacchiere,
ironie, intermezzi musicali e riti e segni inventati di sana pianta, per il
Padreterno non c’è posto, se non per quello che impugna il microfono.
IlBigotto
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