“Posso solo
ripeterti ancora: sono solo parole” recita una bella canzone di Noemi
scritta per lei da Fabrizio Moro. Già, cos’altro dire a chi al termine di una
celebrazione eucaristica (la parola Messa
è troppo desueta), ti guarda sconsolato e ti guarda perché sei sconsolato
perché in quel rito ci sono state solo, appunto, parole. Ma non quelle del
rito; quelle sono state dette in fretta e furia, quelle proprio tante, troppe,
dette in continuazione sono quelle dell’omelia e quelle della spiegazione e
introduzione di ciò che accade. Facendo di esse un’ulteriore occasione per fare
un’omelia, o qualcosa che gli assomigli. Rendendo la liturgia, eterogenesi dei
fini?, un ammasso di “belle” parole, di fervorini da quattro soldi, di un
mediocre e squallido moralismo da chi, messa tra parentesi quella che considera
l’epoca più moralistica della storia della Chiesa – circa 1600 anni tanto per
essere chiari – vuole non essere moralista. Non so, ma a teatro (mi si perdoni
il paragone irriverente e inevitabilmente inadatto) quando si recita c’è il
regista o l’attore principale che spiega cosa sta accadendo, cosa si sta
mostrando e perché si è scelto quel registro piuttosto che un altro? È quello
il momento per spiegare? Non sarà che la necessità di spiegare ciò che si fa
dimostra che ciò che si fa è privo di significato? È un mero e triste
formalismo? Non sarà che si ha la presunzione che a salvare sia più la parola,
propria non di Dio o della Chiesa, e si ha un tremendo terrore del silenzio
tanto da considerarlo uno spazio vuoto da riempire con applausi, canzoncine o
discorsi? L’errore più grande, forse, è rispondere puntualmente a questi
personaggi e a queste teorie, non perché non lo meritino, ma perché facendolo
si decide di abbassare infinitamente il livello della discussione scendendo su
un piano così limitato dove non è possibile indicare la bellezza della logica e
della verità. È un piano così infimo che anche l’ipocrisia e la contraddizione
trovano legittimità, figuriamoci se possono trovarcela la legge di Dio e della
Chiesa. Ma costoro guidano le parrocchie e ignorarli, forse, è ancora più
pericoloso. Se con le parole non ci si può contrapporre perché l’ideologia non
accetta contraddizioni, nemmeno palesi, rimane l’onorevole possibilità di controbattere
con ciò che più temono e fuggono: il silenzio. Il silenzio di chi crede, il
silenzio di chi spera, il silenzio di chi prega. A salvarci, ricordiamolo, non
sarà un’omelia, men che meno una catechesi.
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