Tutto cambia, dicono, niente resta, sperano. Eppure
la realtà trascendente rimane tale nella sua essenza, altrimenti sarebbe
immanente e non più trascendente. Ma al di là delle speranze di chi piuttosto
che coerentemente cambiare bandiera vuole, con l’arroganza e il dispotismo
tipico degli eretici, cambiare sui propri usi e costumi la bandiera che, dice,
ora gli sta stretta, rimane un cambio di prospettiva nelle cose spirituali
piuttosto significativo. Non si tratta di urlare allo scandalo o di rimuginare
sulla gravità della crisi che stiamo vivendo; anzi, nella crisi, bisogna
trovare la forza di rimanere saldi, aspettare che la bufera passi e poi, dalle
macerie, si noterà ciò che è rimasto saldo e fedele e ciò che, invece, è stato
spazzato dai flussi della novità e dell’aggiornamento. Resta, come detto, un
cambio di prospettiva che, nell’imminente inizio della Settimana Santa dovrebbe
far riflettere. Perché viviamo? A cosa serve questa vita? Sono le domande che
ognuno si pone, almeno fino a quando è lucido dagli stordimenti del
menefreghismo in cui ci vorrebbero rinchiudere; sono le domande che pongono il
senso all’esistenza. Ebbene, par di notare, un cambio di prospettiva: si è
passati (al di là di quando e perché) da una prospettiva, appunto,
trascendente a una, appunto, immanente. L’obiettivo della vita, almeno quello
primario, non è più la salvezza (guadagnata, conquistata, meritata, ricevuta o
concessa che sia), ma la felicità. Oggi si vive per essere felici non per
essere salvati dalle conseguenze del peccato originale. Può sembrare una
sottigliezza, ma non lo è; perché cambiando la prospettiva, la direzione,
cambia anche la meta. E cambiando la meta cambia il fine, il senso della vita.
Cambia il modo di accettare le cose, cambia il modo di viverle. E il fine della
salvezza, se subordinato ad un altro, viene meno. Ora questa rubrica potrebbe
indurre molti saccenti a puntare il dito screditando l’estensore di queste
parole definendolo triste, bigotto (appunto) e sfigato, proprio perché non fa
un’apologia della felicità. Eppure l’errore (anche banale e grossolano) sta
proprio qui. Il bigotto di turno non disprezza la felicità, anzi, la cerca e la
salva e crede (che possa piacere o no) che sia preferibile quella eterna
piuttosto che quella terrena. Se poi il buon Dio gli dà la grazia di godere di
questa vita ben venga, ma non è questo il suo obiettivo. Oltretutto c’è un
aspetto particolarmente curioso: la contemporanea teologia della gioia e della
felicità si contrappone in maniera decisa (e come tutte le novità, sprezzante e
arrogante con il passato per il quale vive un atroce complesso di inferiorità)
a quella della salvezza, specie quella per cui l’uomo la salvezza, con la
grazia di Dio, se la deve meritare con le buone opere (che io debbo e voglio
fare recita l’Atto di Speranza). La critica verte, tra gli altri, sulla
questione che l’uomo non dovrebbe far nulla, non c’è sforzo o fatica che tenga;
eppure, l’eterogenesi dei fini, gli sforzi e le fatiche maggiori sono proprio
quelli per essere felici. E sono più pesanti e asfissianti (per quanto
l’ideologia impedisca di ammetterlo e forse anche di riconoscerlo) di quelli
per meritarsi la salvezza. La ricerca della felicità nell’epoca contemporanea è
diventata una schiavitù perché ignora l’insaziabilità dell’uomo il quale, o
accetta una felicità più grande ma non imminente, o si accontenta di una
felicità imminente, ma passeggera ed effimera che appena ottenuta crea un vuoto
ancora più grande e un bisogno ancora maggiore di una nuova felicità. Non è
tanto una questione di merito, può piacere o no, ma una costatazione di un
fallimento educativo. Se la questione viene impostata, come fanno in molti,
irridendo ed etichettando l’interlocutore, allora si può liquidare la faccenda
dando del bigotto a chiunque; se la
questione appassiona e interessa allora si può comprendere la portata di questo
cambio di prospettiva. Soprattutto considerando che la prospettiva della
salvezza non esclude la felicità terrena (anche se effimera e parziale),
mentre, viceversa, la prospettiva della felicità non comprende la salvezza e
non lo può fare perché non ne fa esperienza perché solo essa è divenuto il
metro di giudizio delle cose e ciò che ci supera, precede e segue non può
essere contemplato. Con tutto il disastro, eterno e terreno, che ne deriva.
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