Era lì, immobile, lo sguardo fisso, abbassato, per
terra, a guardare quello che era successo e che mai aveva pensato. Il suo
specchio, a terra, a rispondere al suo sguardo, in frantumi. Com’era accaduto?
Non riusciva a darsi una ragione, a comprendere una causa, ma anche se ve ne
fosse stata una non avrebbe placato il suo sgomento nè mutato le condizioni di
quello specchio. I pensieri si accavallavano tra loro, intercettando
principalmente banalità e problemi secondari. Forse era un meccanismo di difesa
della sua psiche per evitare che si rendesse conto che lo specchio, quello
specchio, il suo specchio, era andato in frantumi.
Non riusciva più a ritrovarsi, a rimirare la sua
immagine nello specchio. Ora, distrutto, era solo una collazione di frammenti,
dai più piccoli ai meno piccoli; no, non c’era posto per pezzi grandi. La
grandezza è un’unità di misura per le cose notevoli, integre, utili. Per le
cose rotte non si parla di grandezza, al massimo di piccolezza. E lì c’erano
tanti pezzi piccoli, più o meno piccoli, ma sempre troppo piccoli per assolvere
al dovere di esistenza di uno specchio.
Ricordava bene quanto quello specchio gli fosse
stato utile in tutte le circostanze della sua vita, per capire chi era e
com’era e provare, per quanto possibile, a cambiare, a correggersi. Ricordava.
Già, perché si ricorda ciò che è passato ed è passato ciò che non è più
presente e ciò che non è più presente è destinato ad essere dimenticato. Si
ricorda ciò che sarà dimenticato. Ma i ricordi esagerano la realtà, non restituiscono
mai un’immagine esatta di quello che è stato. L’immagine; quella stessa
immagine di sé che egli non aveva più e più non avrebbe avuto.
Provava a rasserenarsi, a trovare motivazioni per
andare avanti. “Guarda le cose da un altro punto di vista” gli dicevano; ma
cambiando il punto di vista lo specchio rimaneva tremendamente e
irrevocabilmente rotto. Cambiava il pezzo di specchio in cui guardarsi, ma in
nessuno di essi c’era lui, quello che era e quello che sarebbe potuto essere.
Per questo provava a cercarsi in qualche pezzo di specchio, in quello meno
piccolo per avere un’immagine di sé più ampia possibile; ma era inutile. Un
pezzo non è il tutto e un pezzo buono in corpo malato rischia di essere
l’ultimo sospiro prima della morte. Nei pezzi più piccoli il risultato era
ancora peggiore: ci si illude che l’integrità di un sistema passi
dall’integrità dei suoi singoli pezzi e che l’identità sia la coerente armonia
dei singoli pezzi. Sciocchezze. Un corpo armonico è anche composto da parti
disordinate, se il disordine fa parte di un ordine ben preciso. Ma in questo
caso mancava la precisione, l’idea e l’immagine del tutto.
Iniziò a maturare l’idea che l’immagine di sé non
fosse mai esistita, che fosse tutto frutto della sua immaginazione; che lo
specchio non avesse mai avuto una sua interezza e che essa fosse figlia dei
suoi entusiasmi. Perché anche gli entusiasmi tradiscono le cose, esaltandole e
togliendole dalla dimensione del reale; quel reale di cui si ha sempre un
terrore così grande da drogarlo di entusiasmi e depressioni, qualsiasi cosa
purchè non sia quello che è. O forse, pensò, che quell’interezza c’era stata e
che adesso fosse irrimediabilmente perduta, come perduta era, così, la sua
identità.
Ebbe una serie di sussulti, di confusioni, di smarrimenti.
L’immagine che vide riflessa nei frammenti dello specchio era spesso distorta;
o era reale e distorta era la sua percezione? Ma non c’erano due pezzi che
restituissero la stessa immagine. Che fosse impossibile trovarne una? Che fosse
sbagliato farlo? Che la sua esigenza fosse malvagia e contraria a quella realtà
alla quale voleva disperatamente rifarsi?
Provo a riunire, in un impulso di eccitazione, i
pezzi di quello specchio, a rimboccarsi le maniche ad avere l’arrogante
presunzione di essere più saggio e forte della vita. Ma nella vita quando si
rompe qualcosa, qualcosa sempre si perde e non si riotterrà mai qualcosa
precedentemente integro. Accettare o subire? Forse è una linea sottilissima, ma
passa dal grado di presunzione che si ha in corpo.
Non riusciva a capacitarsi di quanto sarebbe
successo, più di quanto già era successo. Perché il problema non è ciò che è
stato, ma ciò che sarà, a prescindere da quanto è stato. Ma il futuro è
presente che diverrà passato e il presente è tempo che scorre e di cui non si
ha esperienza; l’esperienza non esiste: o è ricordo o è prospettiva. Ma se i
ricordi non sono la realtà e se il futuro non è, perché non è ancora stato, o
non c’è rapporto con le cose o non è il tempo il problema della vita. Lo
specchio, infatti, rimanda un istante, non è profetico o testimone. Ma è
quell’istante il senso di tutto, il tutto sul quale scommettere?
Per alcuni sì. Per lui no. Non avrebbe accettato di
fare della sua vita un istante e di declinare tutta una vita ad un solo istante,
o ad un insieme di essi, scelti nel sacco di quelli vissuti.
Lo specchio non gli serviva più. L’immagine
sfregiata che usciva dallo specchio ricomposto era la sintesi della storia,
della sua storia: ognuno vede ciò che vuol vedere o si convince di vedere, ma
le cose sono quello che sono anche se non le vediamo. Così per lui: era quel
che era anche se non si sarebbe mai più riconosciuto; sarebbe rimasto vivo
anche senza un’immagine di sé.
Forse la vita e la realtà delle cose sono un
negativo; capiamo e conosciamo noi stessi in base a ciò che capiamo e
conosciamo di non essere. E forse la vita è un continuo non essere che ci porta
ad essere.
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