Mi chiamo, anzi no, non rivelo il mio nome, esso
non è importante. La mia storia, quello che voglio raccontare, è importante e
non voglio legarlo al mio nome. Sono un ragazzo di cui anche l’età non è
importante. Quanto sto per dire è inevitabilmente legato a me, alla mia storia
e ai miei anni, ma voglio che si stacchi da essi, per non pensare che quanto mi
è accaduto è stata una disgrazia personale; essa, invece, è stata una disgrazia
universale.
Io amo la natura. Fin da bambino sono sempre
rimasto affascinato dalla creazione, da tutto ciò che ci circonda e che è
incontaminato. Ho sempre desiderato vivere in un giardino, dove la natura è
rimasta quello che è. crescendo ho affinato questa passione, questo desiderio
di verde, di bellezza, di freschezza e delicatezza. La natura sa sorprenderci e
questa sorpresa volevo fosse il senso della mia esistenza. Una vita spesa al
servizio della natura. Un gran progetto, davvero.
Che poi mi vengono i brividi se penso che questo
mia decisione di dedizione e consacrazione totale alla natura è maturata, da
bambino, di fronte a un trauma grandissimo. Forse è stato tale proprio perché
ero un bambino, ancora non navigato nelle cose della vita. Fatto sta che allora
potevo rinunciare a tutto e a tutto rinunciai per amore. Sì, l’amore per la
natura.
Avevo iniziato a coltivare delle piccole piantine
sul balcone della mia cameretta. Erano i miei primi approcci con
quell’obiettivo di “mettere verde laddove non c’è” (come recita il motto della
mia associazione), che solo negli anni successivi formulai così precisamente.
Ero entusiasta di questa missione, di questa passione che ogni giorno mi vedeva
impegnato a prendermi cura di lei. E lì sorsero i problemi. Non sapevo cosa
fare. Ero letteralmente ignorante in materia, spinto soltanto da tanta passione
ed entusiasmo e voglia di fare e non stare con le mani in mano.
Fu così che agii in maniera, solo ora posso dirlo,
scellerata. Volevo che la mia piantina fosse sempre ricoperta delle mie
attenzioni (così come sentivo dire e ripetere per altre questioni), alla quale
non far mancare niente e mai lasciarla senza niente; volevo che sperimentasse
la mia vicinanza, il mio affetto, i miei interessi verso di lei.
Fu così che la uccisi.
Versai per troppi giorni troppa acqua e la soffocai
proteggendola troppo per troppi giorni per ripararla dalle intemperie di quella
stagione. La mia piantina morì. E fui sul punto di lasciar perdere tutto. Mi
sentivo responsabile, colpevole, incapace e, frustrato, un inetto fallito. Non
ero chiamato a fare questo, dovevo cercare altrove. E altrove cercai senza
trovare. Trovai solo quando ritrovai e ritornai alla mia passione d’origine. Ma
rimasi paralizzato di fronte a quel ricordo.
Capii che potevo riprovare, e riuscire, solo quando
qualcuno mi spiegò che c’è una dose giusta d’acqua da dare alle piante e che
c’è un modo corretto per ripararle senza soffocarle. Da allora imparai tante
cose nuove e necessarie perché le mie piantine potessero vivere. E più imparavo
più studiavo. E più studiavo e più capivo che in amore l’improvvisazione è una
droga: conquista, stordisce e poi ti abbandona.
Io
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