Quando leggi certi articoli, la prima cosa che fai è quella di
chiudere il giornale per leggerne la testata. Il sospetto che ti sia capitato
tra le mani una rivista protestante o di qualsiasi altra eretica (eh sì, così
si dice) confessione, setta o religione ti viene. Quando invece scopri, o
confermi i sospetti, che il giornale in questione è un settimanale diocesano
(nello specifico della Diocesi di Casale Monferrato) ti sale lo sconforto
mescolato a una notevole irritazione. Ma la seconda si placa subito dopo
l’istinto iniziale, quello che resta, invece, è l’afflizione, la desolazione
per la mediocrità e l’ignoranza nelle quali il dibattito sulle “cose sacre” è
costretto a convivere.
La citazione che seguirà è
tratta da pagina 20 de “La Vita Casalese” di giovedì 28 novembre scorso, il
tema è la riforma liturgica della “Sacrosanctum Concilium”: “La riforma ebbe un forte e coinvolgente impatto
nella vita dei fedeli e delle parrocchie. «Partecipazione» è il concetto chiave.
Prima il popolo assisteva, era tagliato fuori e non capiva parole e gesti che
il prete, spalle al popolo, celebrava da solo In latino e In canto gregoriano,
nel silenzio dei fedeli mentre un chierichetto rispondeva per tutti e mentre
la gente recitava preghiere o biascicava rosari per proprio conto. La Messa
era clericale, ora è popolare. Ora ogni battezzato ha il diritto e il dovere
di «una partecipazione piena, consapevole, attiva e fruttuosa». «Prima bastava
essere presenti alla Messa, ora dobbiamo partecipare» osserva Paolo VI. La
«scoperta della Bibbia» è un altro, straordinario risultato: il popolo di Dio
riscopre e conosce la Sacra Scrittura, si riappropria della Parola di Dio, può
accedere alle ricchezze dell'Antico e del Nuovo Testamento La riforma della
liturgia e il «grimaldello» del grande rinnovamento ecclesiale grazie alla
rilevanza dottrinale, all'ancoraggio biblico, all’orienta mento pastorale, al
dialogo ecumenico, al bisogno di decentramento e inculturazione” .
Sono affermazioni che vengono
qui riproposte con riluttanza tanto alta è la concentrazione di pregiudizi sul
rito romano antico: si potrebbe entrare nel merito di ciascuna falsa affermazione,
ma non basterebbe lo spazio e, sinceramente, nemmeno la pazienza. Certo, quel
che va dato atto è il coraggio dell’editorialista: affermazioni quali quelle
riportate sopra non possono che mostrare una certa qual disinformazione
(facilmente sanabile, qualora lo si volesse, quanto inaccettabile da parte di
chi scrive di liturgia), da un lato, quanto una notevole ideologizzazione
(altro che quella del Vetus Ordo paventata dal Pontefice regnante) della
riforma liturgica di Annibale Bugnini.
Siamo di fronte, ancora una
volta, alla sindrome, imperante, di chi mette la storia della Chiesa tra
parentesi. C’è chi, pazzesco il solo pensarlo, presuppone che la storia della
Chiesa si sospenda nel 313 (l’Editto di Costantino) per poi riprendere gloriosa
e fiammante nel 1962 (l’apertura del Concilio Vaticano II, ovviamente). Questo
pazzo è elogiato dai nostri vescovi, ma questa è un’altra storia. Milleseicento
anni di storia della Chiesa vengono mandati al macero, il tutto per sottostare
al dogma della chiesa-delle-origini. Chiesa-delle-origini che non è mai
esistita se non nelle fantasie degli eretici che in ogni secolo si ripresentano
con queste assurdità. Basterebbe solamente leggere la “Mediator Dei” di Pio XII
per risolvere la maggior parte di questi problemi. Ovviamente però, Papa
Pacelli sta dentro le parentesi, dentro quella parte di storia della Chiesa da
ignorare e cestinare, di quel passato di cui vergognarsi e rimuovere il più in
fretta possibile. E allora, citeremo due esempi tratti dalla chiesa
contemporanea, quella nata dopo l’idolo-Concilio. Il primo: mons. Klaus Gamber
(un teologo cattolico assai ammirato dall’attuale Papa emerito Benedetto XVI)
ha dimostrato come la pretesa di ricondurre la celebrazione cosiddetta versus
populum come dettata da un “ritorno alle origini” sia palesemente falso: “L'idea che il sacerdote stia di fronte alla
comunità risale senza dubbio a Martin Lutero. […] Prima di Lutero l'idea che il
sacerdote quando celebra la messa stia di fronte alla comunità non si trova in
nessun testo letterario, né è possibile utilizzare per suffragarla i risultati
della ricerca archeologica. […] la celebrazione versus populum va considerata per quello che in realtà è,
una novità, una invenzione di Martin Lutero”. Per il secondo esempio si
considerino gli studi di mons. Athanasius Schneider (un vescovo attuale, non
preconciliare, della chiesa cattolica) il quale ha dimostrato che “la Comunione nella mano non ha nulla a che vedere con la Chiesa
Primitiva, è di Origine Calvinista” al quale fa eco il card. Malcom Ranjith
(un addirittura cardinale attuale, non preconciliare, della chiesa cattolica)
il quale, parlando della comunione sulla mano, afferma che “bisogna riconoscere che fu una prassi
introdotta abusivamente e in fretta in alcuni ambienti della Chiesa subito
dopo il Concilio”.
E poi, domanda delle domande,
se, come sostenete innovando e inventando da decenni, la forma non ha
importanza (direzione celebrante, lingua, canti, posizione tabernacolo, riti,
ecc.) perché quel che conta è la disposizione interiore, perché vi date tanta
pena che venga distrutta la concezione che noi cattolici andiamo difendendo da
sempre? La delegittimazione in corso del passato serve solo a innalzare un
presente che non è glorioso come l’ideologia imperante vuole farci credere. Il
presente non si riesce a lodarlo per meriti propri e si tenta di farlo passare
per bello e buono solo disprezzando (con la menzogna) il passato con cui viene
messo a confronto. Triste e pessima operazione. Il passato diventa da ignorare,
riprende vita solo per essere calunniato e disprezzato. Un po’ di buon senso
basterebbe a domandarsi: ma in questi milleseicento anni non è successo niente
di buono? Il pensiero teologico e filosofico non ha inciso sulla storia del
pensiero teologico e filosofico? I santi non ci sono stati? Non sono stati
riconosciuti dalla Chiesa? E si potrebbe andare avanti per molto.
Già, perché se si legge la
descrizione dei “meriti” presenti, vengono le lacrime agli occhi e le ginocchia
cominciano a cedere: un po’ per il sorriso di tante fantasie, un po’ per la
banalità di tanti luoghi comuni che, dopo cinquant’anni, ancora riescono ad
avere diritto di cittadinanza. “Abbondanti
i frutti: l'uso delle lingue parlate; la partecipazione dell'assemblea; la
riammissione del laici nei ministeri e nel diaconato permanente; il ripristino
della preghiera del fedeli e della Comunione sotto le due specie per il
popolo, in uso sino alla fine dell’XI secolo; il rinnovamento della
predicazione; il riconoscimento della presenza di Cristo nell'assemblea, nel
celebrante, nella Parola di Dio e nell'Eucaristia; l'adattamento all'indole,
alle tradizioni, agli usi e costumi di ogni popolo; la semplificazione dei riti
e l'abbattimento di quell'aura di mistero che li circondava, senza nulla
togliere alla maestosa semplicità della liturgia; la più razionale
ricollocazione delle chiese: crocifisso, mensa, sedi, ambone, tabernacolo,
battistero, organo, corale, banchi, statue, quadri”. La novità, mandando al
macero il discorso e gli sforzi, compiuti da Papa Benedetto XVI perché si
concepisse il Vaticano II alla luce della Tradizione e non il contrario, è
ostentata.
La conclusione dell’articolo a
firma di Pier Giuseppe Accornero, poi, è degna del premio “Disonestà
intellettuale” dell’anno (se non l’hanno inventato che qualcuno si prodighi a
farlo, i concorrenti, nolenti, sono numerosi): “Ci sono stati eccessi e abusi, esagerazioni e stravolgimenti: ma furono
colpa degli uomini e non responsabilità della riforma, per cui è assurda la
critica che con la scomparsa del latino e del gregoriano si sia per sa
«l'atmosfera mistica» perché questa è data non dalla lingua ma dal raccogli mento
e dal silenzio, dalla partecipazione del fedeli. Non ha senso riunirsi in un assemblea
muta e sorda dove uno solo prega e canta per tutti e gli altri fanno da
spettatori come belle statuì ne. Oggi la riforma vive una fase di stanca e ha
bisogno di essere rivitalizzata”. L’onestà di ammettere che forse qualche
responsabilità la riforma in sé ce l’abbia è così difficile da ammettere? No,
perché verrebbe da ricordare che anche tale Joseph Ratzinger (che, sì,
purtroppo, nel frattempo divenne anche Papa) parlò della riforma liturgica come
di un prodotto “costruito a tavolino” nato da quell’“antico edifico”, quale era
la messa tridentina, “fatto a pezzi”. Anathema sit!
Qualche domandina finale in
proposito: perché con la fantomatica Messa-in-latino nessuno si sarebbe mai
azzardato a vestirsi da pagliaccio, a prendere il Corpo di Cristo con le
proprie mani (magari anche da seduto), di storpiare i canti liturgici facendo
della Domenica il surrogato del peggior festival della canzone provinciale?
Perché con la Messa-in-latino e l’impossibilità (più presunta che vera)
dell’impossibilità di accedere alla Sacra Scrittura la gente seppur (come i
novatori dicono) non capiva, era dottrinalmente perfettamente ortodossa? E come
mai con la Messa-partecipata-di-oggi, in cui tutti capiscono tutto, proliferano
le eresie, così come proliferano i tipi di liturgie, tanto che ‘prete che vai,
messa che trovi’? Dov’è il silenzio nella nuova liturgia? Essa non è un
canovaccio su cui imbastire i meriti di un sacerdote trasformato (e
ridicolizzato) da mediatore tra Dio e gli uomini a showman di uno spettacolo
grottesco (per non dire blasfemo da gridare vendetta al cospetto di Dio)? Se proprio
gli errori sono dipesi solo dagli uomini e non dalla riforma – domanda - questi
uomini da dove sono usciti? Non sono figli legittimi della mentalità nata con e
dopo il Vaticano II? Quella mentalità per cui il passato è solo che da
cancellare – e l’articolo in questione lo dimostra perfettamente – per cui la
tradizione è da ridimensionare facendola partire dal 1962 e non
dall’Incarnazione; quella mentalità che ha in droga e voga solo la novità.
Novità tali che, a distanza di soli cinquant’anni, già rendono la liturgia
riformata stanca. Una liturgia che non sa più che cosa inventarsi per attirare
fedeli, perché il suo fine non è più quello di rendere culto a Dio e
santificare gli uomini, ma è quello di attirare consumatori di una chiesa spa,
capace a fornire prodotti e servizi, più che parole di vita eterna (dottrina) e
sacramenti (liturgia). Queste domande ci sarà mai qualcuno (editorialista di un
giornale diocesano o Autorità ecclesiastica) che avrà il coraggio di porsele? E
che magari, in una pausa tra un tweet e uno sbadiglio causato dall’ennesima
novità, sappia darci anche una risposta convincente.
Daniele Di Geronimo
– Mattia Rossi
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