venerdì 8 febbraio 2013

Uno degli aspetti costitutivi (non accessori) della liturgia è quello che riguarda il canto. Se la sua importanza la dovessimo ricavare dall’attenzione con cui essi si scelgono e si eseguono, dovremmo dedurre che nelle chiese cattoliche, il canto, non ha nessuna importanza. Invece esso è parte integrante della liturgia. Sul canto liturgico ci sono, come su tutti gli altri aspetti della liturgia, dei luoghi comuni e degli equivoci così grandi che risulta impossibile anche solo ragionarci sopra. Figuriamoci smontarli. Eppure è un’operazione da fare. Aiuta in questo senso la riflessione che il professor Aurelio Porfiri, docente di musica liturgica e direzione di coro presso l’Università Saint Joseph a Macao (Cina), pubblicata dall’agenzia Zenit in due puntate, nei mesi di giugno e luglio del 2011. Il professore si pone delle semplici domande sulle quali vuole chiarire gli equivoci regnanti nel mondo cattolico. La prima di questa domande recita: “La musica liturgica deve essere semplice?” La risposta è, ovviamente, affermativa, anche perché così si esprime il Concilio Vaticano II nella Sacrosantum Concilium, punto 34. Il problema sorge su che cosa si intende per ‘semplice’. Perché sul fraintendimento di questo termine i progressisti, tutti coloro che hanno in odio la Tradizione, hanno costruito il loro castello di banalità. Infatti a semplice si è fatta corrispondere una produzione musicale piatta, sciatta, banale, melensa e ridicola. Capita sovente di assistere, durante la liturgia, a canzoncine da Zecchino d’Oro, a canti per la festa dell’Unità, o a canzoncine che esasperano il sentimento tanto in voga negli ultimi decenni del ‘volemose bbene’.Tutto questo oltre che non cattolico, non è quello che intende la Chiesa richiamando alla semplicità. Come scrive il prof. Porfiri “non si intende abbassare il livello qualitativo ma solo cercare di ripulire la liturgia da alcune sovrastrutture accumulatesi nel tempo”. Il problema sulla comprensione del vero significato delle parole usate è fondamentale. Sulla divergenza di comprensione nascono gravi fraintendimenti che portano fuori strada le persone semplici e oneste che cercano di eseguire dei sani principi cattolici. Sani principi che vengono mascherati da belle parole, ma che nascondono contenuti velenosi e mortiferi. La seconda domanda è: “Il Concilio Vaticano II ha introdotto le lingue volgari e quindi abolito il latino?”. La risposta è in maniera categorica: no! Al Vaticano II, in nome del suo spirito, viene fatto dire qualsiasi cosa. Gli unici a considerarlo per quello che realmente è e ad attenersi ai suoi documenti, sono coloro che con spirito di cognizione lo criticano. Tutti coloro che lo esaltano probabilmente non ne hanno mai letto una riga, visto che credono che l’ultimo Concilio abbia detto cose che, in realtà, non ha mai sentenziato. Sul latino evito di dilungarmi troppo. Riferisco solo quanto dice il prof. Porfiri in risposta alla ridicola e pretestuosa considerazione che i giovani (come se la Chiesa fosse composta solo da giovani) non sanno il latino. “Vorrei ricordare come proprio i giovani che tanto esaltiamo ascoltano quasi esclusivamente musica in lingue straniere.” Di cui, aggiungo io, non capiscono quasi nulla. Terza domanda: “Il popolo deve cantare e quindi il coro è d’intralcio?” Risposta: “Quello che si voleva evitare è che il canto durante la celebrazione fosse ad esclusivo appannaggio del coro, ma mai si è voluto penalizzare od umiliare il coro nelle celebrazioni liturgiche. Ma purtroppo è quello che succede nelle parrocchie dove sacerdoti poco informati mettono alla porta il coro per una falsa idea di partecipazione, più ispirata ad un vecchio comunitarismo in cui non crede più nessuno che all’autentica dottrina della Chiesa.” Nelle parrocchie vige un attivismo spaventoso secondo il quale se ognuno non fa qualcosa, non partecipa realmente alla liturgia. Quarta domanda: “Bisogna valorizzare la musica e la cultura dei giovani?” Diciamolo chiaramente: questo mantra continuo sui giovani ha effettivamente stancato. Esso mostra, in maniera evidente, coma la Chiesa si sforzi di essere al passo con i tempi, con la novità, con la generazione giovane del momento. Niente di più lontano da un autentico spirito cattolico che miri all’eternità. Oltretutto la Chiesa è cattolica, universale, quindi si rivolge a tutti, anche ai dimenticati degli anziani, degli adulti, degli infanti. Che facciamo organizziamo messe per fasce di età con ninne nanne, balli di gruppo, rock, pop e liscio? “La gioventù viene quindi celebrata in se stessa, non come proiezione verso la maturità, ma come momento a sé stante.” Forse non è un caso se poi da adulti rimangono immaturi. Quinta domanda: “La musica deve rappresentare la vita come gioia?” Qui, me ne rendo conto, entro in un campo forse ancora più minato di quelli fin qui percorsi. Se sono sopravvissuto fino a questo momento è certo giunta l’ora della mia condanna. Perché qui si intercetta benissimo un problema non solo musicale e liturgico, ma anche teologico. Le mie competenze son quelle che sono, ma è evidente come qualche difformità ci sia. Solo per anticipare una futura riflessione, fino a un paio di generazioni fa la vita era considerata un sacrificio, una valle di lacrime (da qui anche la preghiera mariana), un continuo sforzo per raggiungere una salvezza non ottenibile su questa terra, ma promessa nella vita eterna. Oggi come oggi, eliminati i termini di sacrificio, sforzo, dovere, lacrime, si punta tutto sulla gioia. In una logica del marketing è un’operazione che funziona. Promettere il massimo da subito con il minimo sforzo è quanto di migliore si possa proporre a dei clienti. Non a dei fedeli però. Perché certa teologia della gioia assomiglia molto a tante campagne elettorali: tante promesse delle quali pochissime realizzate. Perché ci si può illudere quanto si vuole che la vita sia un continuo di gioie ed emozioni meravigliose, ma essa (la vita) se ne frega delle nostre ideologie e continua per la sua strada, mietendo vittime di sconforti, tristezze, morti, dolori, sacrifici, punizioni e penitenze. Il fedele cattolico che ha sposato la teologia della gioia o impazzisce, o non ci si ritrova più tra quanto gli viene predicato e quanto poi si trova a vivere nella propria vita. Nella vita, certo, ci sono delle gioie, non sono un folle da non riconoscerlo, ma, mi domando, se la vita di qui è già una gioia, una pienezza, perché aspettare e preoccuparmi di una vita futura? E infatti nessuno se ne preoccupa più e pone i propri sforzi a realizzare i propri desideri qui e ora. La religione cattolica, a scanso di equivoci, non è una religione alienante che rimanda solo all’immensamente altro, al dopo, all’eterno; pone attenzione all’oggi e accetta le croci dell’oggi solo perché sa che esse non sono una condanna o il fine, ma che l’uomo è destinato ad una salvezza totale. Senza questa visione sana e ortodossa ogni minima sofferenza viene vissuta come un’ingiustizia di cui rimproverare il vicino e da lui pretenderne la soluzione. Per quel che riguarda, quindi, la musica liturgica, che incarna questa teologia della gioia, assistiamo a canzoni (più che canti) in stile Ragazzo fortunato di Jovanotti. Con annessi battiti di mano, balletti, mosse, piroette e quant’altro possa partorire una simile mentalità. “La musica per la liturgia non è rappresentazione della vita, essa è per la gloria di Dio e l’edificazione e santificazione dei fedeli.” Considerazione successiva: “In Chiesa si suona musica che la gente riconosce come propria”. Questa è un’affermazione che sposano coloro che credono che la Chiesa, e quindi anche la liturgia, debbano stare al passo con i tempi. Siccome la gente sente estranea la musica cattolica di sempre, allora gli forniamo la musica che ascoltano per radio che li fa sentire più a proprio agio. La liturgia non è un qualcosa di familiare per l’uomo, perché essa spalanca le porte del paradiso, del cielo. Noi stiamo sulla ancora sulla terra, non possiamo sentirci a nostro agio. Possiamo certo anelare a quel che la liturgia ci mostra, ma non sarà mai, finché siamo in vita, qualcosa a noi familiare. Ecco perché ogni operazione di rendere la liturgia più vicina ai fedeli è erronea e pericolosa. Si svilisce così il mistero di quello che si celebra; non mostrando più il mistero, ma illudendoci di spiegarlo, lo si spezza, se ne prende solo una parte e lo si riduce a qualcosa di commestibile, consumabile. Come un prodotto. In una chiesa mondana, tutto questo è possibile. Le ultime due considerazioni vertono sulla legittimità dell’esistenza di professionisti di musica sacra, visto che si rimprovera “quel che conta è il cuore e la buona volontà”. In nome del cuore e della buona volontà si è distrutto tutto (o quasi) l’edificio cattolico. Per quanto ancora si vorrà continuare per questa strada?

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