giovedì 15 novembre 2012

Perché siamo stati creati? Questa domanda, che alberga nel cuore di ognuno, magari sotto diverse formulazione, molte delle quali possono escludere la creazione, è la domanda delle domande. Rispondere a questa significa dare senso alla vita e capire quale sia. L’indissolubile Catechismo di San Pio, a questa domanda, così risponde: “Dio ci ha creati per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell'altra, in paradiso” [Catechismo San Pio X §13] Quattro verbi. Conoscere. Amare. Servire. Godere. I primi tre che riguardano il presente, l’ultimo che riguarda il futuro (eventuale). Sorprende una risposta del genere, così come sorprende e forse sconcerta, la gradualità dei verbi. Prima il conoscere e poi l’amare. Quindi il servire, poi il godere. Nella follia moderna pare che venga prima l’amore e poi, forse, non si sa, tutto il resto. Nella depravazione moderna pare venga prima il godere, sicuramente mai il servire. E ciò anche, e forse soprattutto, in ambito religioso. Sì in ambito ecclesiale cattolico. Infatti, certe risposte sembrano non essere più valide, messe in soffitta, magari insieme a paramenti liturgici belli e ben fatti e tante suppellettili liturgiche diventate inutili nella semplificazione (vedi banalizzazione) succeduta all’ultima riforma della Sacra Liturgia. Tutto (risposte, paramenti e suppellettili) rei di essere antecedenti al 1962. Nella Chiesa di oggi tutto ciò che viene prima di quell’anno è da bandire; tutto ciò che viene dopo da esaltare. Il criterio non è più se una cosa è buona o meno, ma solo la sua carta d’identità. Grottesco per un’Istituzione bimillenaria che ha come sposo lo stesso Dio. Ma tant’è. Tornando alla nostra domanda delle domande, per noi che puntiamo a ciò che vale sempre e non solo per uno o più decenni (non siamo amanti delle mode), vediamo di esaminare i quattro verbi che il Catechismo mette nella risposta al perché siamo stati creati. Il primo: conoscere. Già qui sorgono molti problemi. Dio, dicono, si conosce sperimentandolo, come se fosse un attrezzo o un utensile. Dio, dicono, bisogna sentirlo. Come se fosse un brivido, una droga o un’influenza dalla quale, poi giustamente, ci si debba curare. Dio bisogna conoscerlo. Conoscere, partendo dall’etimologia della parola, è apprendere coll’intelletto a prima giunta l’essere, la ragione, il vero delle cose [etimo.it] Bisogna usare la ragione. Detto in termini un po’ più banali, ma chiari, bisogna studiare il catechismo. Conoscere Dio non è sentire il cuore caldo. Altrimenti la conoscenza che ne hanno fornito i Tommaso, gli Anselmo eccetera, sarebbe tutta da rigettare (infatti si rigetta seguendo i teologi del momento). La conoscenza viene ridotta, relatistivicamente, a quello che si sente, a quello che si crede. Della serie “l’importante è che hai un’idea di Dio, di divinità”, poi se questo Dio sia Dio o Buddha, Allah, Odino, Mao e company, non è un problema: sei un uomo in ricerca (anche se tu sei convinto di essere approdato al nirvana) e vai premiato, esaltato dalla stampa e dai cortili e giardinetti sparsi per il mondo. La verità espressa dagli articoli del catechismo viene bistrattata e ignorata, tanto che a chiunque domandi delle verità della religione cattolica o non sa rispondere o se ne esce con una filippica figlia dei “secondo me”. Amare. Per amare bisogna conoscere. L’amore viene dopo. In principio era il Verbo, il Logos. Non l’amore. Romano Amerio la definisce dislocazione della divina Monotriade, cioè fare confusione all’interno della Trinità, all’interno dell’essenza stessa di Dio; roba non da poco. L’amore, anche dopo aver superato la soglia della Chiesa cattolica, viene visto come quell’insieme di banalità così melense al cui confronto gli occhi a cuoricino risultano aspri. L’amore oggi è visto, predicato e vissuto solo in un’espressione orizzontale, meramente tra uomo e uomo, tra esseri umani. L’amore trascendente, nei confronti di Dio, non esiste. Se esiste si esprime nell’amore del prossimo. In quest’assunto si spiegano le bislacche confusioni tra filantropia e carità, lo scambiare la Chiesa come un centro sociale e il ridurre la liturgia a una festa chiassosa tra amici. Tolto Dio rimane solo l’uomo e a lui si esprime il culto. Perché gli uomini non hanno smesso di pregare e di adorare; hanno solo cambiato il fine delle loro pratiche religiose. Da Dio all’uomo: una religione e una liturgia antropomorfa, incentrata solo e soltanto sull’uomo. Con tutte le tragiche conseguenze. “Il precetto di amare l’uomo era nella dottrina della Chiesa connesso col precetto di amare Dio (Matth., 22, 39). L’amor di Dio rimane primo in assoluto e prescrive la forma dell’amor del prossimo. Non è dunque possibile quella forma di filantropia pura che oggi viene anteposta alla filantropia per amor di Dio che sarebbe viziata da una vena utilistica” [R. Amerio – Iota unum] Poi servire. Servire è un termine che non piace al cattolico adulto, ma anche adolescente. Educato alla scuola dei diritti, qui come prima, conosce e rivendica solo i propri, quelli di Dio gli sono sconosciuti. Ancora, più di prima, si capisce perché, in quest’ottica, la liturgia sia stata trasformata in nome dei diritti dell’uomo. Hai bisogno di stare comodo? Ecco le poltrone al posto dei banchi. In ginocchio sei scomodo e ti senti umiliato? Tranquillo, puoi stare in piedi! Ti piacciono le canzoni pop-sanremesi? Ecco le chitarre, i bonghi, i ritornelli e i battiti di mani al posto della musica sacra! Ti annoi ad ascoltar la Messa? Ecco il prete showman che ti guarda in faccia e s’inventa ogni santa Domenica una novità per catturare la tua attenzione! Questi e tanti altri potrebbero essere gli slogan per una campagna pubblicitaria a favore dei diritti dell’uomo, inevitabilmente a discapito di quelli (esistenti!) di Dio. E mi fermo con gli esempi perché ho le lacrime agli occhi a pensare che questa sia la quotidianità in molte chiese cattoliche. Infine, godere. Sì, godere. Che però viene alla fine, dopo aver conosciuto, amato e servito Dio. Noi saggi moderni abbiamo stravolto molte cose, anche questa. Il godere è il fine di tutto. Per cui se quello che fai non ti rende giovamento, non ti fa star bene, non ti fa godere (sessualmente e non solo), allora non lo devi fare. È un male da cui fuggire. La religione, vien da domandarsi, a questo punto a che serve? Questa, però, è una domanda alla quale il Catechismo non risponde.

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