giovedì 24 maggio 2012

“La lieta novella portata dai vangeli è la cognizione del peccato originale” [G. K. Chesterton – San Francesco d’Assisi] Ed è proprio in merito a questa profonda verità dell’essere umano, troppo spesso banalizzata se non addirittura trascurata ed omessa da chi dovrebbe invece predicarla, che muove la riflessione sul piacere sessuale che Antonio Socci mette in bocca ai personaggi della sua ultima fatica, il romanzo I giorni della tempesta:

«Avete parlato di costumi animaleschi per definire que­sta sessuomania ossessiva che dilaga. Vero?»
«Sì» disse Alberto, cercando di capire dove volesse arri­vare.
«Eppure mi viene da chiedermi una cosa, sperando di non scandalizzare nessuno e scusandomi per la brutalità: ma fanno più sesso gli uomini o gli animali?»
«Gli uomini» rispose Ottavio.
«E chi è che ci pensa di più, gli uomini o gli animali?»
«Sicuramente gli uomini, e pure le donne» disse ancora Ottavio ridendo.
«Anche perché gli animali non pensano proprio» ag­giunse Alberto.
«Ma allora» commentò don Michele «è facile constatare che la fissazione per il sesso non è animalesca, anzi emi­nentemente umana... è solo l'uomo che ce l'ha. Perché?»
Nessuno sapeva rispondere.
«È semplice» riprese don Michele. «Perché questa osses­sione mentale è legata solo in parte alla biologia, alla mec­canica degli organi sessuali. La natura ha dei ritmi e delle regole che vediamo proprio nella vita sessuale degli animali. Induce il bisogno che in certi momenti e con precisi meccanismi chimici determina l'accoppiamento e garanti­sce la riproduzione. Invece il desiderio sessuale dell'uomo non è legato a ritmi e meccanismi naturali, non è scandito da un orologio biologico e si accende per altre vie. Come dicono sempre i sessuologi, è di natura mentale: è dalla testa che nasce l'eccitazione. Gli animali dipendono total­mente dal bisogno fisico per il quale sono programmati e il bisogno fisico ha un suo calendario naturale. Gli uomini invece dipendono anche, e direi soprattutto, da un biso­gno mentale, da un impulso psicologico.»
«Ma questo secondo lei cosa significa?» chiese incurio­sito Ottavio.
«Vedi, è la nostra anima che - desiderando Dio, il "Som­mo Piacere" - straripa di un desiderio infinito, di una smi­surata attesa di felicità. Il corpo - che dopo la caduta non è più perfetto - arranca per starle dietro, per cercare di soddi­sfare quel desiderio, ma ha a sua disposizione solo effimeri e limitati piaceri carnali e quindi insegue l'estasi impossibile moltiplicando le fantasie, i partner e la ripetizione ossessiva di quei piaceri. Ma inutilmente, perché l'uomo resta sem­pre inappagato. L'animale appena ha compiuto un atto ses­suale a cui la natura lo spinge è soddisfatto e passa ad altro. L'uomo è l'unica creatura sulla terra che non trova in natura ciò che lo appaga totalmente, ciò di cui sente il bisogno bruciante, ma che neanche riesce a definire cosa sia.»
«E molto interessante, ma queste cose la Chiesa non le dice. Sono teorie sue?» domandò Ottavio.
«Nient'affatto. Io ho solo letto San Tommaso d'Aquino e Sant'Agostino.»
«Quindi lei dice che tutto questo materialismo...»
«Proprio l'ossessione per il sesso - che è tipicamente umana, non animale - mostra che l'uomo ha un'anima: è come se il corpo non riuscisse a soddisfare la misteriosa "fame e sete" che fa ardere l'anima... È come se il corpo fosse un contenitore di piacere troppo piccolo e difettoso.»
«E perché accade questo? Non c'è qualcosa di sbaglia­to?» chiese Agnese.
«C'è un guasto all'origine, infatti, una ferita - il pecca­to originale - per il quale il corpo non è più totalmente "capace di Dio" come l'anima, cioè capace di godere del "Sommo Piacere". È diventato un corpo mortale e limi­tato, non posseduto più pienamente dall'anima, incapace di conoscere e gustare appieno il creato e la bellezza del Creatore. Per questo Dio si è fatto carne: perché l'uomo potesse conoscere anche con la carne ciò che la sua anima, il suo io profondo, brama.»
«Ecco perché nella vita si può constatare che Gesù uni­sce la persona, che di per sé sarebbe tutta frantumata e schizofrenica» disse Agnese.
«Brava. È proprio così. E quella nostra schizofrenia co­mincia a mostrarsi specialmente con l'adolescenza, quan­do tutta la nostra persona viene alla luce ed è nuda...»
«L'adolescenza?»
«E l'età in cui più tumultuosamente cominciamo a co­noscere noi stessi come corpo e come anima. Ci stupiamo del mistero che siamo e scopriamo i desideri della carne e gli infiniti desideri dell'anima, con tutte le domande sulla vita, la morte, il senso dell'esistere, la felicità, l'amore... Proprio quando il nostro orizzonte non è più costituito solo dai genitori e ci spalanchiamo al mondo, ci scopria­mo soli e la ferita delle nostre domande su di noi ci fa avvertire il bisogno fortissimo degli altri, dell'amicizia e dell'amore.»
«Però a questo punto ci accorgiamo che gli altri hanno gli stessi problemi nostri» disse Ottavio.
«Sì e allora impariamo ad amare e a vivere insieme l'av­ventura della conoscenza di sé e degli altri, rispettando il loro mistero, il loro valore e il loro destino. Oppure usia­mo gli altri e li buttiamo come lattine vuote di Coca-Cola per anestetizzare un po' il dolore dell'esistenza e la fatica di vivere.»
«Quindi, in questo caso, più che di rapporti di amo­re si può parlare di potere e di violenza, no?» intervenne Agnese.
«Sì. Se l'anima è imbavagliata, se non ci si sente amati in modo vero e gratuito così da scoprire se stessi, se c'è una tale trascuratezza di sé, del proprio io, dei propri desideri profondi, si paga un grande prezzo e lo si fa pagare agli altri. Perché l'incertezza di esistere e la solitudine possono spingere a esercitare un dominio e un possesso sugli altri che danno un'inebriante sensazione di potere. Il che di­strae, per alcuni istanti, dalle domande più vere, da una vita squallida e senza senso e talvolta pure dallo schifo di sé. Ma non è altro che una fuga illusoria.»
[da A. Socci – I giorni della tempesta]

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