lunedì 21 maggio 2012

Amare: la più grande avventura di una vita, la più grande responsabilità di un’esistenza. Sì, perché amare è anche e forse soprattutto una responsabilità. Forse dell’amore non si dirà mai abbastanza, tant’è che Dio stesso è amore (1Gv 4,16); sarebbe come voler dire di Dio. Compito impossibile per l’uomo. Eppure però, seppur non se ne dirà mai abbastanza, qualcosa si può provare a farlo. L’ho fatto diffusamente in altre pagine, in altri tempi, in altri spazi. Qui vorrei cercare di dare una visione globale, d’insieme, di cosa penso io dell’amore. Di cosa significa amare. Quando amare? Come amare? Tutti? Qualcuno? Le domande sono tante che il solo porsele porta notevoli implicazioni. Innanzitutto credo sia doveroso partire da che cosa significa amare. Già solo su questa domanda dovrei chiudere il foglio che ho davanti e passare a riflettere e a scrivere d’altro. Proprio per la mia incapacità di rispondere, parto da quella definizione di amore che per il momento reputo, come ho spiegato tempo fa, la più esaustiva e completa; ed è quella di Papa Benedetto XVI che dice che “Amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso” [Caritas in Veritate]. Amare quindi è volere. Io voglio amare. È una scelta. E come tale implica una decisione verso l’amore che è allo stesso tempo decisione contro qualcosa. Se amo non posso odiare, disprezzare, ferire, e tutto ciò che all’amore si oppone. In più va detto che, per chi come me si vanta e si sforza di essere cattolico, deve a questo essere cattolico far riferimento. L’abbiamo già fatto avvalendoci del magistero papale, lo facciamo ancor di più avvalendoci del Vangelo. In esso Gesù dice che amare è un comandamento (cfr Gv 13,34 – Gv 15,17), è un dovere. Il fatto che sia un comandamento non inficia la liberalità dell’amore, non impedisce di scegliere di non amare. Tant’è che è una scelta molto diffusa. Però quello che dice Gesù è chiaro: amare è un dovere. Non è quindi un sentire, un’emotività (ciò non vuol dire che non ci siano, ma non sono essi), forse non è neanche troppo spesso un piacere. E qui iniziano le prime difficoltà e i primi malumori. Infatti pensiamo (così siamo educati) che amare ci fa stare bene, ci rende felici, ci umidifica gli occhi, ci riscalda il cuore e ci fa camminare mezzo metro sopra il suolo. Il problema è che se verso quel qualcuno che dobbiamo (non vogliamo o sentiamo) amare, amarlo non ci fa stare bene, non ci rende felici, non ci umidifica gli occhi, non ci scalda il cuore e non ci fa camminare mezzo metro sopra il suolo, allora significa che possiamo non amarlo o che per quella persone non proviamo (sempre il problema di considerare l’amore un sentire) amore. Qui sorge uno dei primi grandi errori che ci porta ad amare solo chi ci dà attenzioni o chi suscita in noi emozioni (una bella donna, una persona affascinante, una persona che ci ha aiutato, ecc). Amiamo quindi solo chi ci ama; amiamo, quindi, solo noi stessi. Non amiamo l’altro per quello che è, ma per quello che ci dà o quello che ci fa. Se non ci desse o ci facesse qualcosa di buono a noi, non lo ameremmo più. Eppure sempre Gesù Cristo in merito dice che: “Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete?” [Mt 5,46 – Lc 6, 32] e va oltre: “Amate i vostri nemici” (Mt 5,44 – Lc 6,27 – Lc 6,35). Chi è il nostro peggior nemico se non colui che non ci ama? Colui che ha scelto di non amare o di amare solo sé stesso? Gesù Cristo è perentorio: bisogna amare tutti, senza distinzione. Le cose sono allora due: o Gesù sbaglia o amare non è, ancora, provare principalmente un sentimento. Che Gesù sbagli è ovviamente impossibile (senza addentrarci in queste questioni) così com’è impossibile che Gesù ci chieda di fare qualcosa che umanamente non saremmo in grado di fare. Per cui amare qualcuno è “volere il suo bene”, come dice il Papa. Non è sentire il cuore battere forte forte o sentire il sangue scoppiare nelle vene. È volere il bene dell’altro. Quindi non il nostro bene. Né il mio bene, né quello comune tra me e la persona che devo amare. Molto spesso pensiamo che (avvalendomi di un esempio di logica matematica) il nostro bene sia un insieme, il bene dell’altro un altro insieme; solo il bene in comune, quello che s’interseca, è il bene che possiamo fare all’altro. Solo in quel risicato spazio possiamo amare l’altro. Non lo amiamo nella sua totalità. Anche qui c’è un sottile, ma grave e pericoloso, egoismo. Ti amo solo se amarti non mi toglie niente. Solo se non mi costa tempo, denaro, fatica, ecc., soprattutto: ti amo solo se amarti non mi fa soffrire. Se amarti mi fa soffrire, mi fa stare male, quello che sto facendo non è amore. Qui però dovremmo domandarci se le frustate, la corona di spine, i chiodi e la lancia, a Nostro Signore lo abbiano fatto soffrire. Credo onestamente di sì, ed è lì che dobbiamo volgere il nostro sguardo per capire cosa sia l’amore e come si ama. Perché quello è l’amore perfetto. Gesù ha amato anche chi lo frustava, lo crocifiggeva e lo trafiggeva. Ed è proprio attraverso le ferite delle fruste e della croce che Egli ama ciascuno di noi. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.” (Gv 15,13) Nella teoria degli insiemi noi amiamo solo se la nostra vita non viene toccata, menomata. Accettiamo un sacrificio, uno sforzo, una fatica, solo se essa è il prezzo da pagare per un caloroso ringraziamento, per un sostanzioso contraccambio o perché quello sforzo e quel sacrificio ci appagano. Se amare l’altro mi fa stare bene, lo amo, altrimenti no. Amiamo solo se quest’amore è evidente, cinematografico, che susciti lodi e applausi. Quindi amare è volere il suo bene. Il bene esclusivo dell’altro. Anche se, e forse soprattutto, è in contrasto con il nostro bene. Qui sarebbe da entrare nel merito di cosa sia il bene. Mi basta dire che il bene dell’altro è ciò che corrisponde alla sua verità. La verità della sua persona, della sua storia, della sua esistenza. Per cui non si ama sempre allo stesso modo. Si ama sempre e tutti, ma non tutti ugualmente. Non è una questione di più o meno amore, è una questione di forma e circostanze. La verità dell’altro ci fa comprendere come dobbiamo amarlo. E qui vorrei puntualizzare che molto spesso amare l’altro è fare qualcosa di concreto, di “materiale”. È un atto, un’azione, una scelta, ecc. Non è, per l’ennesima volta, provare un’emozione, né tantomeno suscitarne una nell’altro, ma realizzare il suo bene. Tant’è che la definizione del Papa da cui siamo partiti subito dopo dice che bisogna adoperarsi efficacemente per il bene dell’altro. Non solo dirlo “ti amo”, “voglio il tuo bene”. Ma realizzarlo. Adoperarsi efficacemente! I sentimenti non si comandano, non si creano, né uccidono, al massimo si controllano (e forse nemmeno; si controllano le conseguenze di quei sentimenti, non i sentimenti stessi). Amare quindi è un atto, una scelta, razionale, non emotiva, che va rivolta a tutti. Indistintamente. È una scelta radicale. Forse è quella incarnata dai santi. Non sono un santo, ma è l’aspirazione che hanno (o dovrebbero avere) tutti i cristiani. Il fatto che amare tutti a questo modo ci risulta difficile, se non impossibile, non deve scoraggiarci, né tantomeno farci ridimensionare e tradire che cosa sia l’amore. Altrimenti faremmo come scriveva il buon Chesterton: “Noi non modifichiamo la realtà per seguire l’ideale, modifichiamo l’ideale: è più facile” [G. K. Chesterton - Ortodossia] Così riduciamo l’amore ad un nostro idolo, un surrogato di quello che è l’amore nella sua più profonda e squisita essenza. Non dobbiamo perderci d’animo sia perché, qui come altrove, siamo assistiti dalla grazia di Dio, senza la quale non potremmo fare nulla (cfr Gv 15,5), sia perché sappiamo, per fede, che se Dio ci chiede qualcosa, ci dà anche la grazia per farla. Dio ci chiede, ci comanda, di amare tutti. Quindi, possiamo farlo. Nella nostra miseria, povertà, debolezza e arroganza. Nel nostro utilitarismo ed egoismo. Con tutti i nostri limiti. L’altro però non deve essere un mezzo per amare noi stessi. L’altro è sempre il fine del nostro amore. Dobbiamo amare l’altro per quello che è, non per quello che vorremmo che fosse. Non dobbiamo amare solo chi ha determinate caratteristiche o chi non ne ha delle altre. Dobbiamo amare tutti per quello che sono. Amare è anche correggere certo, ma la correzione non è un jolly da giocare per passare il turno, aspettare che la persona si sia corretta e poi amarla. La sfida più grande, che è anche la bellezza più profonda e più pura, è amare l’altro oggi, per quello che è, per come sta, per quello che fa. È evidente che è più semplice amare qualcuno che sta bene, che è felice, sereno e tranquillo; ma chi non sta bene, è triste, agitato e angosciato, è forse esentato dall’essere amati? Dobbiamo amare l’altro anche quando il nostro amore viene rifiutato. Certo l’amore non può e non deve diventare uno strumento per imporre noi stessi, i nostri sentimenti o le nostre volontà. Capita anche che per amare qualcuno sia necessario allontanarsi da lui. La nostra presenza, la nostra vicinanza potrebbe non essere un bene. Ecco allora che è amore anche questa forma di sacrificio. Amare è un sacrificio. Il sacrificio delle nostre passioni, dei nostri interessi, del nostro tempo, della nostra energia, delle nostre scelte: di noi stessi. Tutto questo per un fine solo, il più mirabile e adorabile, ma paradossalmente anche il più assurdo e ingiustificato: l’altro.

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