giovedì 8 marzo 2012

“Non basta non mentire per dire la verità”, scrivevo nella mia quotidiana ricerca di aforismi, di verità evidenti. E da questa meditazione sull’ottavo comandamento sono andato a rimuginare su tutti gli altri in cui viene espressa da parte di Dio una negazione, un “non fare qualcosa”. Nella catechesi contemporanea questo modo di esprimersi fa orrore, tanto che non si può parlare di divieti, perché altrimenti Dio non sarebbe come quel bamboccione buonista che si sta tentando (con ottimi risultati) di inculcare. Non potendo parlare di negazioni e divieti i Comandamenti sono presentati, mostrati e spiegati come ‘sì nascosti’. Piuttosto che dire che sono dei “no”, essi sarebbero dei “sì”. Basta rivolgere il senso dei Comandamenti. Bisogna stare attenti a stravolgere, anche un solo iota, di quella che è la parola di Dio. Ovvio non siamo Musulmani e non crediamo che la Scrittura sia stata dettata da Dio. Altrettanto ovvio non siamo Protestanti (o cattolici adulti, che sono la stessa cosa) che crediamo che l’unica fonte della Rivelazione sia la Scrittura, ma sappiamo che Essa è stata ispirata e come tale necessita di un’interprete. E Costei è la Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Punto e basta. Essendo cattolici sappiamo che le parole sono sì importanti, ma che esse vadano interpretate. Sappiamo altresì, facendo uso di un sano realismo (anche questo di marchio cattolico), che “tradurre è un po’ tradire” (ma allora: quanti tradimenti con le molteplici traduzioni della liturgia?!). Attenendoci, quindi, al Testo sacro, leggiamo che Dio dice chiaramente delle cose e non ne dice altre. Questo ha un importante significato. Quando Dio dice: “Non nominare il nome di Dio invano”, non dice “parla di Dio in maniera utile”. Quando dice: ”Non uccidere” non dice “dona la vita”. Quando dice: “Non commettere adulterio”, non dice “Sii fedele”. E così: “Non rubare” non significa ”dai tutto”; “Non mentire” non significa “dì la verità”; “Non desiderare la roba/donna d’altri” non significa “Detesta e disprezza cose e donne di altri”. Aldilà della disgraziata scelta pedagogica di non presentare i Comandamenti come divieti, educando così giovani incapaci di sentirsi dire un ‘no’, con la conseguenza che o non ascoltano chi quel ‘no’ glielo dice o eliminano (in maniera più o meno violenta) chi quel ‘no’ glielo impone. Il problema serio è che si tradisce il senso del Decalogo e si mette in bocca di Dio ciò che Dio non ha pronunciato. Non perché Dio non voglia la verità, la vita, la carità, ecc., ma perché esse non sono prescritte da un Decalogo, come qualche sinistra ideologia e qualche becero moralismo ha tentato (e tentano) di imporre nella storia. Sembra quasi che Dio ci chieda il minimo indispensabile, le cose da non fare. Non togliere la vita, non togliere cose ad altri, non togliere la verità, ecc.: la profonda sapienza del Decalogo sta nel fatto che l’uomo è chiamato a conservare quanto da Dio gli è stato affidato. A non togliere, eliminare, perdere quello che già ha. Come un fedele curatore, non deve aggiungere né togliere nulla (così come i pastori dovrebbero fare della dottrina…). L’uomo timorato di Dio è un conservatore. Per chi pensa che l’essere conservatore significhi essere chiusi in se stessi, disprezzare in toto tutto ciò che di buono c’è nel nuovo, nell’essere bigotti e fermi, immobili e passivi, riporto le parole che Paolo Gulisano mette in bocca al suo padre Brown appena nominato Papa Innocenzo XIV nel gustoso romanzo Il destino di padre Brown (Sugarco): “La posizione conservatrice sarebbe realmente inoppugnabile se non fosse per questo solo fatto: tutto il conservatorismo è basato sull’idea che se lasciate le cose sole, le lasciate come sono. Ma non è così. Se lasciate una cosa sola l’abbandonate alla corrente dei cambiamenti. Se lasciate sola un’insegna bianca, sarà presto un’insegna nera; se tenete a che rimanga bianca, dovete sempre ritingerla di bianco, cioè dovete sempre stare in rivoluzione. Insomma, se volete la vecchia insegna bianca, dove avete una nuova insegna bianca.”

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