Quando tutto intorno, ma soprattutto davanti a te, vedi un orizzonte dipinto dei colori che rispecchiano i tuoi sogni più profondi, con un tratto delicato ma deciso, così preciso che non puoi dubitare che non esista, ma soprattutto che esista qualcosa di migliore, ecco che credi di aver trovato la felicità. Ti prepari allora e ti vesti con il tuo abito migliore. Se non ce l’hai lo acquisti. T’indebiti per ottenere ciò che corrisponde a quell’orizzonte lì. Unico. Preparato apposta per te. Non può essere, ma lo vedi. C’è. E allora tanto vale spendersi e impegnarsi perché quell’orizzonte sia sempre più vicino. Così vicino che diventi realtà. E allora corri. Corri. E corri così tanto che il fiato ti abbandona poco a poco. Ma non t’importa. Perché sai che davanti a te c’è aria nuova. Aria buona. La tua aria. Se poi i polmoni si svuotano, ma ancora non sei giunto al traguardo, chiudi gli occhi. Le lacrime provocate dai dolori lancinanti sono un beneficio per il volto segnato dalla fatica. Quando si ha una meta tutto diventa sopportabile. Ma arriva il momento che proprio non ce la fai e crolli. In maniera goffa e maldestra. Così goffa e maldestra che ti fai anche male. Ma il dolore più grande è alzare lo sguardo e vedere sempre davanti a te quell’orizzonte che inseguivi. Non è ancora presente. È sempre futuro. Anche l’aria che respiri è la stessa. Allora inizi a dubitare che sei il protagonista di un nuovo Truman Show. Che l’orizzonte è di cartone. Magari disegnato e dipinto proprio da Dio. Ma da un dio perfido che sa ciò che vuoi, ma che non ti permette di raggiungerlo. E se pure lo raggiungessi, sarebbe di cartone. Finto. Come la felicità. Vorresti tornare indietro. Tornare alle tue cose. Forse, dopo questa fatica, anche quella monotonia acquisterebbe senso e bellezza. Perché sarebbe vera. Incominci a tornare sui tuoi passi. Ma la mente è ancora là, a quell’orizzonte. Davvero è possibile che fosse tutto finto? Eppure c’è chi ne parla di quell’orizzonte. C’è chi dice di averlo sperimentato, vissuto. Ti sembrano chiacchiere. Cattiverie. Ingiustizie. Non capisci perché, ma le cose sono due. O non esiste niente di tutto ciò o se esiste, non è roba per te. Il che aumenta solo il disprezzo per il mondo, la rabbia per tutti coloro che si gloriano di questa felicità che a te è preclusa e la voglia di sparire e non aver niente a che fare con il mondo. Ma in fondo, a tutta questa storia, c’è un equivoco. Così grosso che per chi ci sta davanti, dentro, non lo nota. Ma il problema è cosa s’intende per felicità. La felicità non sta nel fare o non fare, nel vedere o non vedere, nel sentire o non sentire, ma nell’essere. E l’essere non si cambia dall’oggi al domani. L’essere non si cambia a parole. L’essere si cambia con l’amore (e bisognerebbe capire cosa realmente sia). Non si fa la felicità, non si vede la felicità, né si sente. Si è felici o no. Forse per arrivare all’estate è sempre necessario passare per l’autunno e l’inverno. Questi non dipendono dall’uomo. E non può l’uomo, pena la follia, credere che sia estate quando fuori (e dentro) c’è il ghiaccio. Per sperimentare la Resurrezione è necessario morire. Per essere felici, forse, è necessario soffrire ed essere infelici. La felicità è un dono, una trasformazione dell’essere. Una grazia. Che come c’è donata ci può essere tolta. Da Dio e dagli uomini. Per ragioni a noi spesso sconosciute. Certo è che l’infelicità non è una colpa da imputare a chi non è felice. Forse, al massimo, è una condanna e una pena da scontare. O, una purificazione.
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