lunedì 14 novembre 2011

Domenica prossima, ultima Domenica dell’anno liturgico, si celebrerà la Solennità di Cristo Re dell’universo. Riflettevo sul fatto che, nello stordimento del cattolicesimo moderno, dovuto alla sbornia conciliare, questa solennità dovrebbe essere soppressa o, almeno, rivista. Cristo dovrebbe essere celebrato come Presidente del Consiglio delle divinità. Questa solennità nella nostra epoca ha perso la sua attendibilità. Se da un lato viviamo in una società, e in una Chiesa, schiava della tirannia della democrazia, per cui non ha più senso parlare di un Re, dall’altro lato viviamo in una Chiesa in cui non si fa altro che ripetere l’uguaglianza di Cristo con l’essere umano. “Gesù è uno di noi”, “Gesù è tuo amico”, sono gli slogan che troppo spesso sentiamo ripetere. Questo tipo di predicazione seppur con i suoi aspetti positivi, va erodendo la divinità e la regalità di Cristo. La “logica” conseguenza di questo determinato tipo di predicazione è la rimozione del culto che va tributato a Gesù in quanto Dio. L’adorazione e l’inginocchiarsi, l’uso di materiale e decorazioni preziose, sono pratiche ormai sorpassate e tacciate di maledizione dai cultori del nuovo e delle nuove pratiche democratiche. Se il Catechismo (cfr. § 351 San Pio X; § 1378 Giovanni Paolo II) continua a parlare di “latria” verso Dio, la prassi pastorale è tutt’altro che conforme a quanto affermato dal Catechismo. Questa scollatura tra dottrina e prassi, oltre che provocare il turbamento in chi conosce la dottrina e sperimenta la prassi, crea una perdita della fede in chi ignora la dottrina e vive solo la prassi. Una pratica scollegata a una sana dottrina, porta alla perdita della fede o alla traslazione di essa verso qualche idolo e qualche altro culto, non da ultimo quello di sé stessi. Le nuove chiese o le ristrutturazioni di quelle antiche (vedi il caso del Duomo di Reggio Emilia) tanto per fare qualche esempio, che sono conformi alla dicotomia tra dottrina e prassi, sono la lugubre conferma che tutto si può praticare in quei luoghi, eccetto quello per cui sarebbero destinati: l’adorazione e il culto del Dio di Gesù Cristo. A tal proposito mi pare dovuto e utile concludere con le parole che il Sommo Pontefice Pio XI adoperò, nel 1925 nell’Enciclia Quas Primas, nella quale istituiva la Solennità di Cristo Re: “La celebrazione di questa festa, che si rinnova ogni anno, sarà anche d’ammonimento per le nazioni che il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti: li richiamerà al pensiero del giudizio finale, nel quale Cristo, scacciato dalla società o anche solo ignorato e disprezzato, vendicherà acerbamente le tante ingiurie ricevute, richiedendo la sua regale dignità che la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principî cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell'amministrare la giustizia, sia finalmente nell'informare l'animo dei giovani alla santa dottrina e alla santità dei costumi.”

2 commenti:

  1. Tutto giusto. Aggiungo che confrontando – dal libro della Lovato- la colletta attuale con la precedente, noto un passaggio di registro abbastanza sconcertante: da una realistica teologia politica "Omnes familiae gentium, peccati vulnere disgregata, eius suavissimo subdantur imperio", ad una mistica del creato “ut tota creatura, a servitute liberata, tuae maiestati deserviat ac te sine fine collaudet”, non sbagliata in sé, ma inappropriata alla ragion d’essere della solennità: la regalità spirituale e sociale di Gesù Cristo.
    Credo che comunque sarebbe ingeneroso pensare alla Chiesa di Pio XI come una Chiesa che non vesse chiaro il carattere non trionfalisticamente umano della regalità spirituale e sociale di Cristo; e, laddove qualche testo ne desse adito, la successiva vicenda storica, le encicliche dello stesso papa, il suo evangelico si-si/no-no contro comunismo e nazismo (i poteri mondani allora vincenti) dimostrano invece la consapevolezza di essere un piccolo resto... Bene è stato emendare il postcommunio, ma - torno a dire - una cosa è il peccato del singolo che, grazie alla Croce, è tolto e ciò consente di vivere le virtù evangeliche; una cosa è il peccato sociale e, di contro, la dimensione sociale della Grazia. La prima formula consentiva questa consapevolezza, la seconda la confina come minimo in una dimensione più intima, se non intimistica. Non mi pare un guadagno.

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  2. E dove non c'è guadagno la remissione è certa.

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