mercoledì 20 luglio 2011

Venticinque anni fa divenni cattolico. Esattamente il 20 luglio del 1986. Era di Domenica. Non ricordo nulla, avevo poco più di due mesi. Ricevetti il Battesimo e diventai, per grazia di Dio, cattolico. Per altrettanta sovrabbondanza di grazia nei miei confronti (senza di Essa non avrei potuto, non sarei stato capace) ho avuto la fortuna di non allontanarmi mai dalla Chiesa. Ho continuato anche dopo i Sacramenti dell’iniziazione cristiana a frequentare la Messa domenicale. Non so perché. Lo facevo e basta. Finché un giorno iniziai un cammino di consapevolezza che mi porta oggi ad essere quello che sono, a gloriarmi di essere cattolico e di servire Santa Romana Chiesa e, in ultimo, a domandarmi perché, a venticinque anni, credo nel Dio di Gesù Cristo, nel Papa (peculiarità squisitamente cattolica), nella Chiesa e nei suoi ministri. Appunto, perché? Una domanda importante, impegnativa. Che però nessuno può eludere. Ognuno deve domandarsi ragione delle scelte che compie. Specie se riguardano cose fondamentali, che determinano l’esito di una vita e che segnano e plasmano il fluire stesso di quella vita. Non sono un modello di santità, né un metro di riferimento su cosa sia un ragazzo (uomo?) cattolico. Spesso punto il dito su tante deformazioni della concezione dell’essere cattolico, di come tanti cattolici vedono il loro essere tale e come, altrettanto spesso, laici e non, rispecchiano la loro fede nelle loro scelte. Per quanto mi riguarda, ammetto con profonda amarezza, che spesso le mie scelte e i miei comportamenti molto distano da quell’Uomo-Dio in cui credo: Gesù Cristo e da quanto insegna. Questa discordanza è stata spesso, e lo è tuttora, motivo di sofferenza e condanna per i miei sbagli e per i miei peccati. Con molta difficoltà ogni tanto diventa motivo di conversione. Di purificazione dalle mie sozzure. Tornando al discorso principe: perché sono cattolico? Perché a venticinque anni vado perdendo tempo (a detta di alcuni) dietro un vecchio vestito di bianco, dietro a un Dio che ad annunciarlo sono la peggior specie di uomini esistenti (sempre a detti di alcuni). Perché vado buttando i miei anni migliori dietro precetti, rinunce, scelte di vita, umanamente inspiegabili e culturalmente perverse? La risposta è una, è semplice, banale, ma per me ogni volta consolatoria: perché lì c’è la verità. Quid est veritas? (Che cos’è la verità?) domandò Ponzio Pilato a Gesù. Gesù non rispose. Io non posso essere così presuntuoso da avere e dare una risposta se Cristo non l’ha fatto. Non so cosa (ma so chi) sia, ma so dove trovarla. Ed è proprio in quel vecchio vestito di bianco maltrattato, umiliato e disprezzato da molti (soprattutto cattolici), in quel Dio annunciato da uomini indegni, in quei dogmi, precetti, devozioni e scelte di vita, che rendono l’uomo tale e lo distinguono dalla bestia. Lo so che a far certi discorsi in una cultura animalista è da pazzi, ma l’uomo non è un cane, un gatto o l’orso bianco del WWF. L’uomo è altro. Seppur miserabile, sempre uomo. Chesterton diceva che la Chiesa cattolica è il posto dove tutte le verità si danno appuntamento. Per me la fede è questo: credere alla verità. Che non è così scontato come sembra. Poiché la verità cresce insieme alla zizzania. Non è così evidente (la verità) come spesso vorremmo, perché altrimenti non saremmo liberi e saremmo costretti ad aderirvi. E non avremmo bisogno della fede, e quindi di Dio. Alla domanda “che cos’è la fede?” il sempreverde catechismo di San Pio X rispondeva: “La fede é quella virtù soprannaturale per cui crediamo, sull'autorità di Dio, ciò che Egli ha rivelato e ci propone a credere per mezzo della Chiesa.” [Catechismo San Pio X, 232] Eccola la mia fede. Cattolica. Credo in Dio per mezzo della Chiesa. Senza di essa probabilmente non crederei. Hanno gioco facile quelli che attaccano e criticano questa visione della fede come qualcosa di bigotto, di clericale, di razionale e non sentimentale, che non scalda il cuore. Come se la vita dipendesse dall’emotività. Che è sì un fattore importante, ma non si esaurisce in quello. Una delle cose che ci differenzia dalle bestie è proprio la razionalità, l’adesione cosciente e libera alle nostre decisioni. Non siamo schiavi degli istinti. Almeno non dovremmo esserlo. A scaldare il cuore sono tante cose. Spesso anche un bicchiere di grappa. Ma questo non dà la salvezza. Forse dà la sua illusione. La salvezza viene da Dio che è verità. Certo è anche amore, come potrebbe non esserlo. Ma non è di quell’amore come si considera oggi. Giuliano Ferrara ha scritto che “L’amore è forse il cuore della fede, ma il cristianesimo incrocia qualcosa di altrettanto importante: la verità”. Sull’amore si dovrebbero aprire parentesi importanti, sulle quali ho scritto alcune cose, ma sulle quali dovrò tornare. Qui volevo porre l’attenzione su altro. Sulla fede. La mia fede in Dio e nella Chiesa (cose che non possono essere scisse) non è un’obbedienza cieca e irrazionale. È razionale. Nel maturamento della mia fede e della convinzione della mia scelta mi è capitato spesso di trovarmi in difficoltà su alcune questioni. La mia pelle mi portava a credere cose che la Chiesa condannava (quando si ricordava di farlo), o comunque non accettava come moralmente lecito; dall’altra quella mia stessa pelle (bagnata da quell’acqua santa di cui oggi festeggio i venticinque anni) mi diceva che ciò che la Chiesa professava e credeva era vero. Che fare? A quale pelle credere? A quella che mi conveniva in ogni circostanza? L’onestà intellettuale (poca, ma comunque quanto basta) mi ha portato a evitare queste scelte di comodo. Per questo è entrata in scena la ragione. La razionalità. Ed essa confermava (e conferma tuttora, senza smentite) ciò che la Chiesa cattolica ha sempre insegnato e difeso. La sua dottrina era razionale, rispondeva alle esigenze della mia anima (non a tutte, ma non tutte le esigenze che abbiamo sono sane e sante) e il seguire quella dottrina mi faceva stare bene. E questo miracolo si realizza ogni volta. Anche oggi, mentre sto scrivendo. Ecco perché sto nella Chiesa. Ecco perché la amo e la servo. Soprattutto nella Persona del Santo Padre. Chiunque esso sia. Per ora ho avuto la fortuna di avere Benedetto XVI (e mi risulta difficile capire come un cattolico lo possa disprezzare). In futuro avrò altri. E se forse sarà più difficile, non lo so, in lui, nel Papa, si fonda la Chiesa. La roccia. Pietro. Tu es Petrus… E a Lui prestiamo obbedienza. Probabilmente ogni persona ha nel suo passato e nel suo presente i germi delle sue scelte e del suo essere (così mi dicono) e quindi altrettanto probabilmente da esso dipende il mio attaccamento alla verità. E quindi il mio smisurato amore per la Chiesa cattolica. Vivo, per gli anni che ho, è anche più esasperata la cosa, in un’epoca educata alla non esistenza della verità, al relativismo duro e puro. Quando questo rimane nelle discussioni accademiche poco male. Quando esso (il relativismo) invade la realtà (e l’ha invasa) provoca danni che solo chi li vive e come me li subisce, può capirne la portata. Vivere e relazionarsi in un mondo dove non c’è distinzione tra bene e male (e l’unica distinzione concessa è quella del soggettivismo) provoca la pazzia. Qualsiasi scelta ha lo stesso valore. Sia che è per il bene, sia che è per il male. Non perché si è indifferenti al bene e al male, ma perché essi non esistono se non esiste una verità che li determina. Sembrano cose lontane, assurde, inspiegabili. Eppure sono l’acqua e l’aria dei giovani di oggi. Di quelle generazioni (partendo dalla mia) che sono cresciute in queste condizioni. Io ho avuto la grazia della fede. Prego che Dio me la conservi salda e vigorosa. E preghiamo anche per tutti quelli che non ce l’hanno. Perché nel buio della notte sappiano che la luce c’è. L’esistenza non è immersa solo nell’ombra, non è sempre male. E questa consapevolezza, derivante dalla fede, li aiuti, come aiuta me, a vivere nelle difficoltà quotidiane della vita.

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