venerdì 10 giugno 2011

Sto leggendo La fede dei demoni di Fabrice Hadjadj, un testo molto interessante. Mi ha fatto sussultare quanto scrive citando San Tommaso d’Aquino (Summa theologiae, vol IV, I, qu. 63, art 1): «Il peccato dell’angelo non suppone l’ignoranza, ma soltanto una mancanza di considerazione di quelle cose che andrebbero considerate […] vale a dire l’ordine richiesto dalla volontà divina» e lo compara a «qualcuno che decida di pregare e lo fa senza rispettare le regole liturgiche istituite dalla Chiesa». Già san Tommaso riflette e denuncia chi prega senza rispettare le regole liturgiche istituite dalla Chiesa. Ed è quello che, in maniera esasperata, accade quotidianamente nelle nostre parrocchie, nelle nostre chiese, nelle messe cui partecipiamo. Seriamente: quante delle liturgie cui abbiamo preso parte erano totalmente conformi a quanto l’Autorità preposta a farlo (il Papa e la Chiesa) dispone? Quanta uniformità abbiamo trovato, spostandoci da una chiesa all’altra, magari nella stessa città, o peggio, nello stesso quartiere? Dov’è andata a finire la cattolicità, l’universalità della Chiesa che è, appunto, cattolica? Siamo giunti al punto, che san Tommaso definisce demoniaco (il che non dovrebbe lasciarci indifferenti), in cui ogni comunità, ogni parrocchia, celebra la propria messa, il proprio rito. Chiesa che vai, messa che trovi. Con la deviazione ancora più agghiacciante del: prete che vai, messa che trovi. Ogni sacerdote celebra a modo suo. Chi aggiunge una cosa, chi ne toglie un’altra. Chi la fa in un modo, chi in un’altra. La confusione nei fedeli è la conseguenza più ovvia e la meno pericolosa. La perdita della fede, o il suo snaturamento, è la conseguenza ancor più ovvia, e sicuramente più pericolosa. Ma quanti di quelli che sono stati chiamati a tutelare la fede dei piccoli, si preoccupano di farlo? Quanto, invece, essi non sono gli artefici e i complici di tante apostasie e tanti ateismi? La classica obiezione che si fa, l’accusa che si rivolge a chi sostiene queste posizioni, è quella di essere dei formalisti, dei freddi burocrati, dei rubricisti, di gente che non sa cogliere lo spirito e la fede nelle evoluzioni e nei sentimenti della gente. Ma non è il sentimentalismo, lo spontaneismo, il “sentire qualcosa dentro”, l’individualismo, a regolare i gesti e le azioni della liturgia. Ogni cosa ha bisogno di una forma. Chi non lo riconosce e chi non lo accetta è un eretico. Qualcuno che vuole solo il sentimento, rifiutando ogni tipo di carnalità, ogni tipo di fisicità. Cristo l’ha presa completamente questa natura umana. Le conseguenze sono anche qui. Non si può pensare di dimostrare amore dando pugni in faccia ad una persona. Non si può pensare di fare discorsi seri, ridendo ogni due parole. Non si può pensare di essere educati mangiando a bocca aperta o con le mani, o infilandosi le dita nel naso. Ogni cosa ha la sua forma. Cristo ha detto che “chi non mi ama non osserva le mie parole” (Gv 14,24). Se si vuol rimaner nell’ortodossia (cosa cui tengo particolarmente) sappiamo che la Chiesa è custode e annunciatrice della Parola di Dio. Chi non obbedisce alla Chiesa non obbedisce a Gesù Cristo. E l’obbedienza è la virtù che più abbiamo smesso di esercitare. Novelli Lucifero vogliamo fare di testa nostra. Sappiamo, possiamo e dobbiamo fare da noi stessi. Senza l’aiuto di nessuno. Tantomeno di Dio. Dio non è più Gesù Cristo, ma Io. E qui la variazione è importante. Bisognerebbe, oltretutto, ricordarsi che ogni celebrazione liturgica, a celebrarla è tutta la Chiesa. Quella terrena, unita a quella celeste. Non solo quelle venti, trenta, cento o mille persone radunate intorno a un sacerdote. Essendo una cosa comune, unitaria, vale quanto dice San Paolo: “Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «E io di Cefa», «E io di Cristo!». Cristo è stato forse diviso?” [1Cor 1,11-13] No, Cristo non è stato diviso. La divisione non proviene da Dio. Per ritrovare la comunione, l’unità (quella vera, non quella numerica e apparente), bisogna come al solito fare un grande sforzo di umiltà: mettere da parte il proprio io e le proprie convinzioni. Mettersi alla sequela di colui che è stato chiamato, lui più di tutti, di guidare il gregge di Cristo e di confermare i suoi fratelli nella fede. Di chi parlo? del Papa. Che non è un impiccio che ci dobbiamo tenere perché non si riesce a fare altrimenti. Non è un incomodo. Non è un rimasuglio di un’epoca che non c’è più: è il segno visibile sul quale riconoscersi e ritrovarsi. È l’unica certezza che abbiamo per non perdersi, per non dannarsi. “Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversum eam.” [Mt 16,18] Le porte degli infermi, su Pietro, non prevarranno.

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