Di fronte ai mali del mondo, ai dolori della vita (per chi riconosce che ci sono), di fronte a qualsiasi tipo di fallimento, delusione o sofferenza, si sente ripetere spesso che la risposta a questi mali è l’ottimismo. L’avere una smodata fiducia nel futuro e in quello che può capitare. Si può, però, dar credito a questa visione del mondo? Si può, però, da cristiani, avere questa concezione di base? A mio avviso no. E proverò a spiegare perché. L’ottimismo cristiano è un ottimismo escatologico, sulle cose ultime. “C’è dunque un ottimismo di tipo escatologico che deve caratterizzare noi cristiani. Per quanto riguarda i rapporti col mondo, il cristiano non è né ottimista né pessimista, è consapevole che nella storia male e bene si intrecciano, a cominciare da ogni singolo uomo e sa che deve confrontarsi con la realtà così com’è, senza illusioni ma anche senza cinismo corrosivo.” [V. Messori] Se è vero, come è vero, che Dio sa scrivere dritto su righe storte, questo non ci autorizza a scrivere righe storte. E nemmeno a tollerarle. Perché su quelle righe possono scivolare dei nostri fratelli. E possiamo scivolarci anche noi. Con il rischio ancora maggiore di non rendercene conto e di persistere nell’errore, perché siamo convinti che tutto sia relativo, tutto è bene e tutto è buono. E che anche la riga storta può portare allo stesso punto della riga dritta. Aldilà del palese controsenso geometrico (e logico-filosofico), appare evidente che contro la nostra libertà Dio non può salvarci, e che se siamo convinti di percorrere linee dritte (ma sono storte) o che anche le righe storte portano allo stesso punto delle righe dritte, ci precludiamo da soli la salvezza. “Dio ci ha creato senza il nostro consenso, ma non ci salva senza la nostra volontà”. [Sant’Agostino] A chi si domandasse con che coraggio, o almeno con quale serietà, si possa parlare di visione ottimistica in una società segnata da una crisi economica pesante, da una crisi d’identità, da una crisi sul proprio futuro, specie quello delle giovani generazioni, con le minacce incombenti delle guerre, va detto che quello che pare essere pessimismo, sfiducia e rassegnazione è, invece, l’altra faccia della stessa medaglia. Due facce di una moneta che non paga nel commercio della vita. Quello che manca è sempre quel sano realismo cristiano di cui si è persa la traccia e la conoscenza. Seguendo i dettami del progresso, del futuro migliore, ci si è incaponiti seguendo alcune direzioni. Anche se la realtà dimostrava il contrario, non si è voluto cedere. Insistendo nell’ideologia ottimistica si è arrivati alla disperazione. Se continui a predicare che tutto è bello, che tutto va bene, che tutto andrà meglio, più di qualcuno poi le domande se le pone e le risposte non le trova. Perché il male nel mondo c’è. La sofferenza pure. Degli insuccessi non ne parliamo. Perché ostinarsi a dire che non ci sono, e che, se ci sono, non sono quello che sono? Il cristianesimo, la fede cattolica, non è estraniazione. Non rende l’uomo, un ebete che pure se gli muore un amico, ride. Ed è felice. Soffre e piange come tutti. Così come ha pianto e sofferto Gesù Cristo. Con quelle consapevolezze che evitano di sfociare nella disperazione e, quindi, nella dannazione. Ma l’altra autostrada che porta alla disperazione, e, sempre, alla dannazione, è quella dell’ottimismo. Di una visione non reale, non vera, del mondo. Il sempre buon Gilbert Chesterton diceva che “La lieta novella portata dai vangeli è la cognizione del peccato originale” [G. K. Chesterton – San Francesco d’Assisi] La realtà del peccato originale, al pari di quella dell’Incarnazione di Dio, è una di quelle verità della fede cattolica così immense e ricche di conseguenze, così fondamentali, che abbiamo finito di dimenticarle e di prenderle in considerazione. L’uomo è sottoposto continuamente al peccato, al male. Quello suo volontario e quello del mondo. Il peccato non si risolve con la politica o con chissà quali altri mezzi sociali. C’è bisogno di Dio e della Sua grazia. C’è bisogno della Chiesa. Che sana le ferite del peccato, ma non lo elimina. Perché così ha voluto Dio.
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