martedì 22 febbraio 2011

Ho terminato di leggere un libro che raccoglie alcuni discorsi e meditazioni di Madre Teresa di Calcutta, dal titolo Dove c’è amore c’è Dio. Una delle prime e costanti tematiche che della beata vengono proposte in questo volume è quella relativa alla sofferenza. Una delle prime considerazioni che ho tratto da questa lettura è stata l’assoluta dicotomia tra quanto insegnato da Madre Teresa e quanto insegnato e creduto comunemente dai fedeli. Mi spiego meglio. Due dei più grandi e noti santi (o beati) recenti, cioè San Pio da Pietralcina e la beata Madre Teresa di Calcutta, parlano ripetutamente della sofferenza. Eppure questa sembra essere sparita dal vocabolario del cattolico medio e dalle omelie dei sacerdoti. Sembra che l’essere cristiani porti all’eliminazione della sofferenza, o che essa addirittura non esista. È un tema spesso ignorato. Persi come siamo a capire dove il cristiano debba inserirsi in politica e nelle questioni sociali, abbiamo spesso trascurato la sana, santa e basilare dottrina cattolica. Quella insegnata dal Catechismo. Quella che ci sfama nella quotidianità. Infatti l’esperienza della sofferenza è comune a tutti. Ogni uomo la sperimenta. C’è però una pericolosa e dannosa tendenza a credere che il cristiano non la debba soffrire. Che l’essere cristiano, l’avere fede, ti porta a sconfiggerla, ad eliminarla. Ma la cosa puzza abbastanza di eresia, visto che Cristo stesso ha sofferto e Cristo stesso non ha eliminato la sofferenza, ma se l’è fatta imprimere sulle mani e sui piedi. Questo non significa che essere cristiani non cambia nulla. La differenza abissale sta nel capire e accettare che la croce non è l’ultima parola, che la croce non è una punizione, né una condanna, ma che tramite essa e solo e soltanto tramite e non malgrado essa, passa la strada per la felicità. Viviamo in una società che rimuove ipso facto ogni discorso sulla sofferenza. “L’uomo deve essere felice” è il monito di alcune Costituzioni, l’impegno di molti governi. Cos’è che impedisce la felicità? La sofferenza. Come eliminarla? Non ne parliamo. Se ti capita, evitala, rimuovila. Quindi se nella vita ti capita una malattia e non la riesci a curare, per essere felici elimini il malato (che sia tu stesso o un altro). Se per la tua felicità una gravidanza è un impedimento, sopprimi il nascituro. Se la persona che hai deciso di sposare ti limita o non ti va più bene, puoi divorziare. E via via discorrendo. E questa è l’educazione che ricevono i nostri giovani. La vita si realizza nel successo, nel benessere. Ogni mezzo è lecito per raggiungerlo. Se la vita è però segnata da una sofferenza (più o meno grande che sia) nascono gli squilibri. Se poi anche la Chiesa smette di predicare ed educare alla sofferenza, gli squilibri aumentano e le conseguenze possono essere drammatiche. Infatti, anche a livello ecclesiale, sembra essere sparito (tranne qualche rara eccezione) il senso della sofferenza. La fede sembra essere un toccasana, una droga che stordisce e ti fa passare la nausea per il male del mondo. Della Messa si ignora il senso e il valore sacrificale. Nelle predicazioni viene omesso il mistero della sofferenza e del male. Sembra non esistere. Eppure, come dicevamo all’inizio, i santi insegnano un’altra cosa. Parlano comunemente della sofferenza. Non la rimuovono, la vivono. E lì sperimentano il senso della vita. La felicità. È un assurdo è vero, una follia, chiaro. Ma “noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” [1Cor 1,23] La fede o è questo o è un annacquamento, un retorico buonismo che non salva e nemmeno medica le ferite e le sofferenze del vivere. San Pio da Pietralcina diceva che “Tutti mi chiedono di essere liberati dalla croce, nessuno di essere aiutato a portarla”. E Madre Teresa invece scriveva che “L’amore va costruito sul sacrificio; dobbiamo essere capaci di dare finchè non fa soffrire.” E ancora: “Una sorella mi disse: «Voglio fare un sacrificio e non accettare caramelle». Io le dissi: «No, è meglio accettare caramelle come tutti gli altri e domani, se qualcuno ti offre qualcosa di amaro, accetta anche quello».”

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