martedì 18 gennaio 2011

C'era una volta e

C’era una volta e forse c’è tuttora, un uomo seduto su un vagone del treno che da Firenze porta a Roma. Stava lì seduto al suo posto a guardare le immagini che la realtà proiettava sul vetro del finestrino che gli stava accanto. C’erano e questi sì, ci sono tuttora, paesaggi di quell’Italia di cui Matteo faceva parte. Matteo si chiamava il ragazzo di cui si narra questa storia. Si chiama tutt’ora, anche se non fosse più seduto su quel treno che da Firenze porta a Roma. Perché un viaggio ti cambia sì la vita, come te la possono cambiare tante cose, ma non muta l’identità di una persona. E si sa che l’identità degli uomini si forma già dal nome. Per questo non è un gioco, né tantomeno banale, dare un nome ai propri figli. E se questi figli un giorno prenderanno un treno, non necessariamente da Firenze a Roma, quando scenderanno si chiameranno con lo stesso nome con cui sono saliti. A Matteo accadde la stessa cosa. E quando scese da quel treno, alle 16 di un pomeriggio soleggiato, agli inizi della primavera, non era sicuro di quanto, e se, quel viaggio lo avesse cambiato. Non sapeva nemmeno se quel viaggio lo aveva intrapreso proprio per cambiare o solo per svagare. Anche perché, l’esperienza lo conferma, più uno si impegna a cambiare, più questo cambiamento non arriva. Probabilmente qui c’è una conferma, una traccia, un indizio, di come i cambiamenti non siano frutto di nostre scelte, di nostre decisioni. Magari la decisione c’è nell’accogliere, nel riconoscere e accettare questo cambiamento. Ma a ben guardare non ne siamo noi gli artefici. I cambiamenti ci giungono da altri. Per questo l’unica cosa che possiamo fare è accoglierli. Come un dono. O come una maledizione. Perché cambiare non è sinonimo di migliorare. Così vorrebbero farci credere, per fregarci, dannarci, e farci cambiare verso il male. Ma il cambiamento è uno strumento, un mezzo, non il fine. Come il treno su cui stava, e forse sta tuttora, Matteo. Quel treno è stato un mezzo per raggiungere Firenze e da Firenze raggiungere Roma. Non è stato un fine il viaggio. Viaggiare è bello, costruttivo e affascinante, non lo nego, ma non è un fine. Ci deve essere una meta da raggiungere e una da cui allontanarsi, preferibilmente per ritornarvi. Dico preferibilmente perché il ritorno è la parte migliore del viaggio. È quella in cui hai qualcosa. Non solo le speranze che accompagnano l’andata; ma le certezze che contraddistinguono il ritorno. Anche qui, certezze non per forza positive, ma anche, purtroppo, negative.
Avevamo lasciato Matteo alla stazione Termini, verso le 16 quando il treno proveniente da Firenze aveva fatto l’ingresso nella stazione. Il vociare dei passanti, dei residenti della stazione, si faceva sentire fin dentro il vagone dove Matteo era seduto. Rimase seduto fino all’ultimo, non aveva fretta. L’aveva persa, consumata, distrutta, nell’incontro che fece in quel di Firenze. Ora, tornando a Roma, non aveva nessuno da rincorrere. Aveva qualcuno a cui riferire, con cui condividere. Ma voleva farlo innanzitutto con sé stesso. E le ore trascorse sui binari, con lo sguardo rivolto all’infinito, non gli erano bastate. Forse non gli sarebbero bastate nemmeno quelle che precedevano la sua morte. Sicuramente trascorrere qualche minuto in più seduto sul sedile che ormai aveva assorbito e impresso la somma del suo peso, non sarebbe servito a niente. Ma Matteo era lì. Sconosciuto a tutti, come lui non conosceva nessuno di quelle persone che gli passavano accanto, chi sorridendo, chi conversando al telefono, chi pensieroso, chi appena svegliato, avvertito di essere arrivato. Quando il treno si svuotò, anche Matteo prese la strada dell’uscita. Scese le scale molto lentamente. Forse pensava che ci fosse qualche telecamera che lo fissava e che volesse immortalare quei momenti. Di telecamere alla stazione Termini, come in molte altre stazioni, ce ne sono; ma dubito fortemente che le immagini che catturano poi verranno trasmesse in una sala cinematografica. Anche perché Matteo per il mondo, per quel mondo di pendolari residenti alla stazione Termini, non era nessuno. Per i suoi amici e per chi lo conosceva era qualcuno, ma per loro no. Eppure erano i primi che lui incontrò dopo essere tornato da Firenze. Mentre camminava, diretto all’uscita della stazione, pensava a tutto quello che gli era successo. Poche ore. Era partito la mattina presto e quel pomeriggio era tornato a Roma. La sua Roma. Sempre la solita Roma. Nel bene e nel male. Forse ora lui era un tantino diverso. Non sapeva cosa fare. Di certo doveva tornare a casa. Ma prima, voleva in qualche modo lasciare il segno di quell’esperienza, di quelle ore che avevano impresso nella sua vita un segno indelebile. Matteo aveva molto la mentalità del regista. Nei film, infatti, non vi è quotidianità, non vi è normalità. È un susseguirsi di cose straordinarie. Incontri, inseguimenti, baci, amori, furti, morti, abbandoni e quant’altro. Cose che accadono anche nella vita reale, ma non tutti insieme e nemmeno tutti per forza. La distanza che oltretutto intercorre tra l’uno e l’altro è abissale rispetto a i pochi minuti di una pellicola. Eppure nei film, sempre, dopo un grande evento, si finisce per sancire, per ricordare quell’evento, con un grande gesto. Magari banale, ma in una cornice unica. In modo che qualcuno poi in quella cornice ci si possa inserire. Se così accade nei film, non sempre è possibile nella vita. Matteo però ci pensava. Un gesto, una situazione, una scelta, che avesse dato un segno diverso a quella giornata, in modo tale che, a distanza di anni, se lo potesse ancora ricordare.
Matteo era in un bar sul Lungarno. Seduta di fronte a lui, sua madre. Era la prima volta che si vedevano. Lui ventinove anni. Lei, quarantasette. Una gravidanza indesiderata. Frutto di una sbornia e di un‘ idea molto diffusa, ma altresì molto malsana, di divertimento. Non ci fu aborto. Il padre di Matteo decise di tenerlo. Fu difficile convincere lei a portare avanti la gravidanza. Ma così avvenne. Appena nato, lei, di lui, non volle sapere nulla. Aveva un altro uomo. Aveva altri sogni. Aveva altro. Non voleva lui. Matteo visse e crebbe con suo padre. Un giorno poi, seguendo l’immaginazione, decise di incontrare sua madre. Almeno per vederla in faccia, guardarle gli occhi, che erano anche i suoi. Suo padre non voleva. Era riuscito, a fatica, a crescere Matteo senza una donna (non volle nessuna al suo fianco). Era riuscito (forse), ancora più a fatica, ad accettare l’idea che lei non era lì con lui. Perché lui l’amava. Per quell’amore che si può provare a diciotto anni e con qualche lattina e bicchierino nelle vene più del dovuto. Ma anche quello è amore. L’abbandono l’ha sofferto anche lui. Forse più di Matteo che sua madre non l’aveva mai vista e conosciuta. Ora la vedeva e incominciava a conoscerla. Almeno ci provava. Tentava di far suo qualcosa, qualche particolare. Così poteva dire, e dirsi, “mia madre è così”, o “no, mia madre non è così”. Di lei non sapeva niente, il padre ne parlava poco. Era sempre stato onesto con lui. Per quanto fosse stata dura accettare la sua storia, Matteo apprezzò (e apprezza tutt’ora) la sincerità del padre. Seduti a quel tavolo di un bar, con un caffè sopra il tavolo che li divideva, c’erano Matteo e sua madre. Il mondo era spettatore. Magari disattento e di passaggio, ma attendeva. Un gesto, un sorriso, una smorfia. Niente. Matteo era arrivato per primo, lei si fece indicare il tavolo prenotato a suo nome. E si sedette davanti a lui, che intanto, per impegnare il tempo, distruggeva la bustina di zucchero. Lei si sedette e lui la guardò. Si guardarono entrambi. Cosa pensarono non si sa. Cosa volevano fare nemmeno. Cosa fecero sì. Perché Matteo se ci parli e ci entri in confidenza, poi magari te lo racconta pure. Lei gli disse solo: «Perché?». Lui pensò che quella era la sua di domanda. Lui aveva solo domande, non risposte. E questo lo spiazzò. Farfugliò qualcosa cercando le parole giuste. Le disse che voleva vederla, sapere chi era e come era. Se si era pentita della sua scelta, se voleva sapere di lui. Che vita faceva e che vita sognava di avere. Lei fu molto vaga nelle risposte, ma decisa nella sostanza. Aveva un’altra vita. Se tornasse indietro ai suoi diciotto anni probabilmente rifarebbe la stessa scelta. Perché così si sentì di fare. E quando segui i sentimenti, non sai mai dove andrai a finire. Matteo rimase di sasso a tutta quella freddezza e determinatezza. Il ghiaccio che lo inondò, bloccò anche ogni sorta di odio, di rancore, di disprezzo e di rabbia verso quella donna. Questo fu per lui una salvezza, perché così difficilmente come si era seduto a quel tavolo, così difficilmente si alzò. Pagò il caffè e andò via. Lasciando dietro di sé sua madre e una parte della sua vita mai conosciuta e mai condivisa.
Matteo quella sera tornò a casa. Raccontò tutto a suo padre che si sforzò di contenere il dolore che assumeva il volto della rabbia, dello sdegno e del disprezzo. Matteo sembrava essere indifferente a tutto ciò, aveva ottenuto quello che voleva. Di aspettative se ne era fatte tante. Come sempre capita, di fronte alle aspettative, esse non rispecchiano mai i nostri desideri. E rimaniamo fregati. O preservati dal dolore. Matteo con quell’assenza ci era cresciuto, convissuto e ora ci stava diventando uomo. Anche quelle poche e dure parole, quei pochi minuti in sua compagnia, riempirono il vuoto della sua solitudine.
Lo riempirono solo apparentemente. Matteo lo puoi ancora incontrare su un treno che da Firenze porta a Roma  o che da Roma porta a Firenze, perché lui spesso torna lì. Magari solo per un ora; magari evitando quello stesso bar. Matteo va lì e cerca di trovare sua madre. Non ha nulla da dirle, niente da chiederle. Vorrebbe vederla e seguirla. Pensa che sua madre possa stare solo lì. Lì l’ha conosciuta e lì continua a cercarla. Questo gli manca, e questo forse non avrà mai. Per questo lui sta sempre lì; per questo prende sempre un treno, perché è in ricerca di qualcosa che chi dovrebbe, non gli vuole dare.

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