venerdì 15 ottobre 2010

Quando smette di piovere


Quando Mario, fermo al semaforo rosso in quella notte di settembre, girò verso destra per tornare verso casa, si trovò davanti Davide alla guida della sua macchina. Ognuno di loro, amici fin dall’infanzia, aveva trascorso la serata fuori. Ed ora si ritrovavano nel loro quartiere a tornare a casa, a racimolare le ore di sonno necessarie per almeno stare svegli la mattina successiva. Per le energie per studiare o lavorare si sarebbero fatto ricorso ad una buona dose di caffè. Mario fece i fari a Davide, per avvertirlo della sua presenza. Molto probabilmente si sarebbero fermati sotto casa di Davide per un’ultima sigaretta, quattro chiacchiere, due commenti sulle rispettive serate e un unico grande sonno da smaltire. A quell’appuntamento e a quella sigaretta non ci arrivarono mai. Nemmeno il tempo di rendersi conto di cosa stesse succedendo lì intorno che una macchina ad altissima velocità, ignorando completamente lo stop, colpì in pieno la macchina di Davide e la scaraventò addosso al muro dall’altra parte della strada. Un botto pauroso. Peggio di un esplosione. E peggio ancora, dentro c’era Davide. Mario era impietrito. Non sapeva cosa fare, pensare, dire. Anche solo a sé stesso. Dopo qualche minuto accorsero sul posto qualche residente svegliato dal boato dell’incidente. Furono loro a chiamare ambulanza e Polizia. La prima si portò via Davide disteso su un lettino, grondante di sangue. La seconda si portò via l’ipnosi di Mario e lo scaraventò alla cruda realtà. Domande di rito, quasi di un rito funebre. Mario era impietrito. Ci mise del tempo prima di parlare. Davide. Davide. Davide. Quel nome gli martellava nella testa. E appresso a lui quello della madre e del padre. E quello degli amici. Se delegò la Polizia di comunicare ai genitori di Davide che il loro figlio avrebbe trascorso la notte (e forse tante altre ancora) in un letto di un ospedale, gli amici doveva avvertirli lui. Chiamarli ora o domattina? A lui avrebbe cambiato poco. Optò per chiamarli subito. Almeno di chi trovò il telefono acceso. Non sapeva che dire, né che fare. Non aveva preventivato nei suoi programmi di vita una situazione del genere. Sbrigò le pratiche con la Polizia e, insieme a due amici ormai sopraggiunti, presero la strada dell’ospedale. Il viaggio fu di totale silenzio. Gelido silenzio. Ogni parola era fuori luogo. Mario non reputò necessario spiegare l’accaduto. Il cartoccio che il pezzo di cielo della macchina di Davide era diventato era più eloquente di cento parole. “Quest’evento ci cambierà la vita” pensava silenziosamente Sara, seduta sul sedile posteriore. “Sì, ma come?”. Troppe erano le domande. Altrettante le paure. Tutti loro erano terrorizzati nel doversi imbattere nella disperazione dei genitori di Davide. Li incontrarono nel corridoio dell’ospedale. Anche in questo caso, puro silenzio. Interrotto dal pianto feroce della madre di Davide quando abbracciò gli amici di suo figlio e dallo sguardo impietrito del padre. Chi c’era da invidiare tra i due? Forse nessuno. Entrarono nell’ospedale e si accomodarono davanti alla sala operatoria. Erano in quattro. I genitori di Davide, Mario e Luca. Sara aveva preso la strada della cappella. Lì, in ginocchio, implorava la grazia per Davide. Mario quando si rese conto che Sara non c’era e Luca gli riferì dov’era, venne assalito dalla rabbia. Voleva prendere Sara, metterla spalle al muro e domandarle che cosa stesse facendo. Puntarle il dito contro e dirle dov’era quel Dio che ora stava pregando. Dov’era quando Davide camminava per strada?. Perché proprio lui? Perché tutto questo? Almeno, pensò, sta facendo quello che Davide avrebbe fatto se al suo posto in quella sala operatoria in quel momento ci fosse stato qualcuno di loro. La rabbia si tramutò in lacrime quando Sara, uscendo dalla cappella qualche ora dopo, lo abbracciò. Tutte le domande rabbiose lasciarono il posto a quel gesto così caldo, senza parole né risposte, di cui tanto aveva bisogno. Forse più delle motivazioni aveva necessità di convinzioni, di certezze. Era il dramma dell’assurdità che lo braccava. Soffriva, come ognuno di loro. Forse più di loro, pensava, perché era suo amico. Ma vedere gli occhi spenti dei genitori di Davide era ancora più lancinante del ricordo del boato dell’incidente di qualche ora prima. Tutto si era realizzato in poco tempo. Non aveva avuto modo di pensare, né di concretizzare. In quei momenti le loro vite erano in sospeso. Lo sarebbero state per molto. I medici che uscivano dalla sala operatoria si sforzavano di non lasciar trasparire niente. Pronunciavano diagnosi e le loro intenzioni di interventi che confondevano solamente le menti dei genitori che ascoltavano quegli uomini come fossero profeti. E lo erano. In parte. Profeti della vita di Davide. Forse sapevano che non ce l’avrebbe fatta o che ce l’avrebbe fatta, ma con gravi danni. Lo sapevano forse, ma lasciavano viva la speranza. Che se ti fa sperare il bene, ti fa anche dannare pensando al peggio. Quella notte finì così. Le prime luci dell’alba si affacciarono presto e Sara si presentò con una busta di caffè e di cornetti. Stonavano con il loro dramma e la loro malinconia. Cornetti e caffè erano cibi di una colazione da fare con gli amici a tarda notte. Lì gli amici c’erano sì, ma non avevano nulla da festeggiare o da ridere. Squillò il telefono di Mario. Casa sua. Non aveva detto nulla. Non era tornato a casa. La madre, agitata, non lo aveva sentito tornare a casa e aveva pensato che fosse normale. Una domenica sera allungata. Ma quando non lo trovò nel letto corse al telefono a chiamarlo. Aveva paura gli fosse successo qualcosa disse rassicurata quando lo sentì rispondere al telefono. Qualcosa era successo, ma non a lui. Il dramma entrò anche dentro casa sua, attraverso le sue parole, per bocca di sua madre. La notizia fece il giro. Il lunedi sera lo seppero tutti. Fu difficile, per chi c’era dal primo istante, tornare a casa. Era difficile staccarsi dal quel luogo. Sembrava dovessero abbandonare Davide. Ed era assurdo tornare a una vita che non aveva più senso in quello stato di cose. Lavorare, studiare, mangiare, dormire (per chi ci riuscì) e anche solo parlare, divenne un’impresa. Le settimane e i mesi successivi all’incidente furono un viavai di persone. Davide non fu mai solo. Anche gente che non vedeva da anni lo andò a trovare. Loro videro lui, coperto di tubi e cerotti. Lui non vide loro e i loro occhi. E forse fu per lui una salvezza. Davide era vivo, seppure qualcuno si ostinava a non definirlo vivo, quel corpo alimentato da una macchina. Ma chi difendeva più di tutti la vita di Davide era Mario. Lui che fino a qualche mese prima era sostenitore dello “staccare la spina”. Non credeva in Dio, ma sperava in un miracolo. Non aveva fede, ma guardava sempre più il cielo in cerca di qualcuno a cui fare delle richieste o, almeno, avere in cambio delle certezze. Davide viveva così. Con i suoi amici che si sforzavano di parlargli normalmente, per cercare di farlo uscire dal quello strano letargo. Suo padre e sua madre invecchiarono in una notte. Quella notte. I giorni, i mesi e gli anni che seguirono non tolsero alla loro vita nè tempo, nè nulla. Avevano perso tutto in un istante. Non seppero mai dire se fu quando ricevettero la chiamata della Polizia; quando videro la macchina accartocciata come un foglio di carta buttato per la strada; o quando entrarono per la prima volta in ospedale e si stanziarono davanti alla porta della sala operatoria. Non seppero quando, ma seppero che fu così. I natali, i compleanni e le feste che seguirono mancavano di qualcosa. Il tempo, maledetto, stava riportando loro una normalità che non volevano avere. Si stavano abituando a Davide così. Al fatto che Davide non c’era più come c’era prima. Un posto in meno a tavola, una poltrona di meno nei cinema, un regalo in meno da fare ogni anno e un amico in meno, ogni giorno, con cui parlare. Loro con Davide parlavano. Più che certi, speravano che lui li sentisse. Soprattutto Mario che tante volte aveva discusso con Davide di questi argomenti, sapeva l’idea del suo amico. E più per rispetto, che per convinzioni personali, parlava con lui. Questo aiutò molto anche Mario. Non sentire però più le battute, le uscite sceme di Davide era devastante. Quel silenzio non riempiva niente. Ogni volta, usciti da quella stanza, si sentivano impotenti. Entravano con qualcosa da dire, con qualcosa da far ascoltare, con qualcosa da leggere; uscivano svuotati di quello che avevano portato e di loro stessi. Stavano morendo anche loro. Tutto procedeva in quella regolarità che di regolare ha ben poco. L’assurdo stava diventando ordinario. Le loro vite si erano adattate e codificate a quell’evento. Se non tutti i giorni, almeno una o due volte a settimana erano in quell’ospedale. A turno. Quell’evento stava cambiando più loro che Davide. Davide sembrava impassibile. Chissà se stava invecchiando anche lui. Chissà se stava crescendo. Chissà. Mario un giorno, come tanti, uguale e identico agli altri, un banalissimo giorno di pioggia, andò a trovare Davide. Entrò con la tranquillità che quel posto non gli ispirava per niente. Erano anni che solcava quell’ingresso e quei corridoi. Quei bagni erano più familiari di quelli di casa sua; ma rimanevano maledettamente estranei. E forse era un bene anche questo, come gli ricordava dolcemente Sara ogni volta che parlavano di queste cose; almeno l’atrocità e il dolore di quanto successo non erano diventati normali, non li avevano accettati. Non avevano dimenticato Davide. Sapevano che quella era la provvisorietà; come lo era per loro la fuori. Davide sarebbe uscito di lì. In piedi, su una sedia a rotelle o su un lettino. Non necessariamente vivo, ma ne sarebbe uscito. Così come loro sarebbero usciti da quella vita. Chissà quando, anche per loro. Chissà come. Ripensava anche a queste cose quando Mario entrò nella stanza di Davide. Quella ormai era quasi la sua stanza. Avevano lasciato lì molte cose di Davide o che usavano anche loro quando lo andavano a trovare. Era quella una casa ormai. Quanto era salato l’affitto, però. Erano tanti i pensieri che annebbiavano la vista a Mario. Il corpo martoriato e legato da fili e tubi non era mai lo stesso. Ogni volta accusava il colpo di un’immagine diversa. Quella volta anche. E soffrì terribilmente. Tanto che si ritrovò in ginocchio, con le mani sul viso accanto al letto di Davide. Ancora una volta insieme. Non si accorse che, proprio in quel momento, stava pregando. E smise di piovere.

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