mercoledì 8 settembre 2010

Un ragazzo e il suo pianoforte

Immaginate un pianoforte. E immaginatevi seduto lì davanti, sul suo sgabello, un ragazzo. Un ragazzo prodigio. In pochi anni aveva imparato a suonare il pianoforte. Le sue dita scorrevano delicatamente e velocemente sopra quei tasti. Le sue dita non sentivano la pressione, le sue dita accarezzavano i tasti. Ogni carezza era una nota. Ogni nota una carezza. Per chi lo ascoltava. Accorrevano in tanti ad ascoltarlo, era un piacere stare in sua compagnia, molti lo invidiavano, tanti lo applaudivano, tutti lo ascoltavano. Non poteva essere altrimenti. Quella melodia, veloce o lenta che fosse, ti avvolgeva, ti comunicava qualcosa, anche il semplice stare bene. Che non è poco. Tantomeno se a dartelo è un ragazzo seduto davanti ad un pianoforte. Magari, banalmente, si potrebbe pensare e credere che quell’armonia venisse solamente dalla pressione meccanica e ripetuta di alcune dita su alcuni tasti. In tanti avrebbero provato ad imitarlo e anche lui, quel ragazzo prodigio, negli anni successivi, avrebbe provato a cambiare piano. Ma la melodia non era la stessa. Come l’amore non può essere trasferito su un altro volto, un altro corpo, un altro sguardo, un’altra storia; così la musica, quella musica, non poteva essere suonata su un altro strumento, per quanto simile potesse essere. Le cose cambiarono quando iniziarono a non funzionare i primi tasti. All’inizio erano quelli neri, i più piccoli; poi iniziarono a non funzionare nemmeno quelli bianchi. Dapprima quelli più lontani, quelli che usava meno. Così non se ne rese subito conto. E quando capitò di suonare quei tasti, stonò. E l’effetto fu notato da molti. Da tutti. Da lui non ce lo si sarebbe mai aspettato. Eppure capitò anche lui. Anche lui rimase perplesso. Quel tasto che aveva sempre funzionato ora non funzionava più. Perché? Domandarselo non ridava vita al tasto. Per cui si impegnò da quel momento in poi, a suonare senza utilizzare quei tasti. Era triste. È come amare una persona e non poterci parlare. Amarla e non poterla accarezzare. La stessa cosa. Quello fu l’inizio della fine. Aveva perso l’entusiasmo, la felicità di suonare. Continuava a farlo, non poteva non farlo. Suonare era vivere. Era stare bene. Ora non poteva farlo più come voleva e come avrebbe dovuto fare. Perché che senso ha avere un piano di ottantotto tasti e poterne usare solo ottantasette? Da lì a poco furono sempre meno quelli che riuscì ad usare. Sempre senza volerlo, sempre improvvisamente da un momento all’altro, alcuni tasti smisero di suonare. Capitò anche a quei tasti che erano necessari per suonare le sue composizioni migliori. Non aveva senso tutto quello. Eppure era così. Provò a smontare i tasti. Per vedere se c’era qualche difetto sotto o dentro il pianoforte. Niente. Tutto era nella norma, tutto doveva funzionare. Quel pianoforte cominciò a perdere i tasti. Smontandoli e vedendo che continuavano a non funzionare non ce li rimise più. Tanto era inutile. Ve lo ricordate il pianoforte che vi siete immaginati all’inizio? Ora immaginate una serie di denti di una persona anziana. La stessa desolazione. Soprattutto al ricordo di quanto era perfetto e funzionante prima. Improvvisamente aveva smesso di funzionare. Quel ragazzo seduto davanti al pianoforte non riusciva a capacitarsene. Decise di provarne un altro di pianoforte; questo funzionava. Ma non era la stessa cosa. E non era per ripicca o per infantile isteria, ma è come pretendere che un bambino indossi una taglia XL o che un adulto porti una scarpa 24 di piede. Impossibile. Al massimo ridicolo. Comunque non felice. Non sé stesso. Il nostro ragazzo, un dì ragazzo prodigio, ora era l’ombra di sé stesso. Nessuno più veniva ad ascoltare le sue melodie. Anche perché di melodie non ce ne erano. Con i pochi tasti rimanenti si poteva fare ben poco. Anche il suo talento doveva abdicare alla miseria del suo strumento. Alzavo la testa, volgeva lo sguardo, e vedeva e, soprattutto, sentiva, altre persone che con i loro strumenti riuscivano a fare meraviglie. Non era il suo genere, lui suonava con il pianoforte. Però almeno gli altri suonavano. Lui non poteva. Capitò un giorno che gli si sedette accanto, su quello sgabello, un uomo che ha il nome di tre lettere. Non è né Ken, né Ugo, e va scritto con la maiuscola altrimenti è l’opposto di sé stesso. Sfiorò con il suo dito il vuoto di un tasto che non c’era più. Il nostro amico musicista riconobbe subito quella nota. Vuoi per il suo talento, vuoi per la nostalgia di qualcosa che non c’è più, ti rendi subito conto quando torna. Si voltò e non vide nulla. Eppure era quello il tasto che aveva suonato. Poco dopo ne suonò un altro di quelli rotti. Provò lui, ma niente. Si innervosì. I tasti che non ci sono e i tasti rotti non possono suonare. Non ha senso. Eppure suonavano. A volte molto lentamente. A volte con melodie che il nostro ragazzo non conosceva. Sembrava quasi si dovesse adattare a suonare un duetto. Una musica a quattro mani. Di cui due, non le sue, nemmeno le vedeva. Oltretutto non aveva la partitura, non conosceva la sequenza delle note. Provò ad andargli dietro, a fidarsi di quell’istinto che ormai aveva arrugginito. Stonò e stonò ancora. Solo l’insistenza lo portò a ridisegnare sul suo volto un sorriso. Un sorriso di stupore e anche un po’ di presunzione. È tutto un sogno, una follia. I tasti che non ci sono non possono suonare. Eppure stanno suonando. A volte bisogna lasciare il passo all’evidenza, che non sempre va a braccetto con la logica. L’evidenza è uno spirito libero, un po’ stravagante, spesso si circonda di altre compagnie. Il nostro amico ricominciò a suonare solo quando seguì il suo nuovo compagno. Ora non si trattava più di suonare da solo, né si trattava di suonare cose scritte da lui o imparate da altri. Ora doveva suonare cose che non sapeva. Doveva seguire quel compagno misterioso. Che magari ad un bemolle faceva seguire un diesis, quando lui, il nostro amico, avrebbe fatto tutt’altro. E l’istinto spesso lo spingeva a farlo. E stonava. Ora si trattava di capacitarsi che può suonare anche uno strumento rotto. Anche un pianoforte senza tasti.

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