Ricorre la Giornata della
Memoria. E, con tutti gli aspetti ridicoli degli atti religiosi della civiltà
laicista, oggi ci si sforza di essere umani, di essere attenti, rispettosi, e
tante altre cose che, fino a ieri e, da domani, non ci saranno più.
Queste giornate sono come le
feste dei calendari religiosi, solo che quelle andavano demolite perché ingabbiavano
l’uomo, queste invece vanno rispettate e celebrate, pena il fallimento dell’ideologia
laicista. La differenza passa tra la libertà di aderire a un Dio e quella di
essere schiavi di uno Stato.
Uno Stato che si inumidisce gli
occhi e tramite i suoi sacerdoti brucia si prodiga nelle omelie di discorsi
pieni di retorica e privi di una qualsivoglia possibilità di redenzione, perché
i cattivi sono gli altri e noi siamo buoni perché non facciamo come loro.
Eppure, ad un’analisi piuttosto
sommaria e superficiale (cioè che si fermi alla superficie, ma non per questo meno
importante), noi non siamo diversi da loro. Non siamo diversi da chi, in nome
di un’ideologia, ha stabilito chi aveva la dignità di essere persona e quindi
di vivere e chi non ce l’aveva e per questo, nemmeno per una colpa, andava
perseguito e fatto fuori; per costruire la razza ariana, dicevano.
Cosa c’è di diverso con noi che
oggi perseguiamo e facciamo fuori chi non è sano (aborto e eutanasia), chi non
è felice (eutanasia), chi non è corrispondente agli standard dei desideri
(eugenetica e manipolazioni varie)?
Qual è la differenza? Forse,
oggi, nel modo. Non più lager, ma cliniche ospedaliere. Non filmati in bianco e
nero che ancora feriscono l’anima di chi non l’ha soffocata appresso ai
piaceri, alle esperienze o alle ideologie, ma spot pubblicitari, campagne
mediatiche e slogan dei politicanti e deli liberi muratori e pensatori,
colorate e che piacciono, che comunicano
esperienze.
Qual è la differenza? Nessuna. C’è
sempre qualcuno che stabilisce chi ha il diritto di vivere o che stabilisce
come ognuno debba vivere. Ebrei, cattolici, omosessuali, zingari, disabili e
molti altri un tempo? Cattolici, uomini religiosi, disabili, non progressisti e
molti altri oggi. C’è sempre chi, tramite l’applicazione di etichette, chi deve
dividere le persone in buoni e cattivi, una versione aggiornata del pollice
verso antico nelle arene digitali piuttosto che in quelle dei gladiatori.
E le etichette, applicate alle
persone, non spiegano, ma nascondono, coprono, soffocano. E in ogni caso
ignorano l’uomo, la persona che c’è dietro. Perché le etichette non spiegano,
non si vuole spiegare, perché per spiegare bisogna ascoltare, accogliere e
capire e per fare tutto questo c’è bisogno di qualcosa (e forse Qualcuno) che
ci trascenda, che sia sempre lo stesso e non cambi in base alle rivoluzioni
storiche, ai colpi stato, agli inciuci dei partiti e alle pressioni delle
lobby.
Che cos’è un uomo? Rispondere a questa
domanda, prima di stracciarsi ipocritamente le vesti per ciò che in passato è
accaduto e oggi si ripete, forse per molti aspetti – perché più subdolo – in maniera
anche più grave e totalizzante.
Risposte, non esperienze. Non è
facile, perché rispondere chiede di esprimersi e comunicare la propria
esistenza, che emerge dalla massa dei numeri e si toglie la maschera dell’avatar.
Farlo espone a rischi, perché la violenza dell’uomo non si cancella mai del
tutto e prenderne consapevolezza, in questa società che il massimo della
reazione che riesce a concepire sono gli hastag e i flash mob, è piuttosto
complicato.
La storia non ha insegnato niente
e questo qualcosa dovrebbe insegnare, ma non ci sono maestri e in qualche modo,
volenti o no, bisogna arrangiarsi.
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