Per tutti il cielo è azzurro e
la terra è verde. Per lui, invece, il cielo era verde e nemmeno di un verde
limpido. Era un verde sbiadito, privo della luce dei colori. Eppure sapeva
com’era il verde bagnato dalla luce del sole. Ne aveva visti tanti da bambino
di giardini, da quello piccolo della casa dove era nato, a quello grande della
casa dei nonni. Fino alle sterminate distese dei parchi della sua città. Amava
l’infinito, le cose senza una fine: l’eternità. E lui se la immaginava come una
giardino che continuava all’orizzonte; dove lo sguardo poteva incontrare
alberi, cespugli, rocce e colline, ma dove bastava fare un passo in avanti per
continuare a vedere davanti a sé quello stesso manto di terra che aveva sotto i
piedi e che se si voltava aveva anche dietro di sé. Quello spazio era il
passato, il presente e il futuro. L’eternità. Ogni volta che poteva fuggiva in
un giardino. Quando era a casa sua si rannicchiava e con le mani ai lati degli
occhi si costringeva a vedere solo lo spazio del suo giardino. Per i suoi amici
era una sciocchezza, per gli adulti un vezzo di un ragazzo strano. Crescendo
non perse questa abitudine e molti presero a deriderlo, ironizzando sulla sua
limitatezza. Non capivano che per vedere davvero l’infinito bisogna essere finiti
e avere dei limiti. Perché ci saranno sempre frontiere contro cui infrangere lo
sguardo o contro cui affogare i propri sogni; ma conosce l’infinito solo chi
guarda in faccia i limiti e scorge quello che c’è dopo. Come gli alberi, i
cespugli, le rocce e le colline. Possono ostacolarti la vista, ma non possono
toglierti quello che c’è dopo. Perché nonostante tutte le barriere che possiamo
costruire o che la natura ci impone, c’è sempre un dopo, un oltre cui andare.
Le prime volte vedere spazi sempre uguali lo aveva terrorizzato. Il susseguirsi
impassibile di spazi verdi, l’apparente monotonia del giardino o del parco, gli
sembrava una gabbia più che l’espressione massima della libertà. All’inizio, un
po’ come tutti, amava la novità e cercava spazi sempre nuovi e non sopportava
l’uguaglianza. Si stordiva con il monotono mutamento delle luci della città e
dei posti chiusi. In quell’artificiale varietà cercava ciò che non poteva
trovare. Cercava l’adrenalina delle cose sempre nuove, dei colori che cambiano,
per abituarsi che tutto nella vita cambia e mai niente resta uguale. Solo poi,
forse tardi – non saprebbe dirlo con certezza – comprese che solo avendo la
percezione dell’istante, dello spazio ristretto del presente, si poteva
comprendere, vedere e gustare la varietà dell’infinito. Solo amando e vedendo
lo spazio stretto del giardino di casa sua, costruito con le mani ai lati degli
occhi, poteva vedere tutto quello che quel piccolo spazio di giardino poteva
diventare. Dal verde pallido delle prime piogge, al verde tirato nelle arsure
d’estate; al verde orgoglioso della primavera a quello commosso di un giorno di
pioggia. Fu questo che lo salvò.
Il suo cielo verde era la
macchia ammuffita di un muro decrepito di un triste ospedale di periferia.
Giaceva inerte in un letto da quando un incidente stradale gli aveva spezzato
via l’uso degli arti e della parola. Nonostante sembrasse la carcassa di un
burattino gettata sul letto di un’infanzia ormai superata, egli ancora vedeva.
E quella macchia nell’angolo del soffitto di quell’ospedale era il suo
giardino. Il giardino e il parco dove era cresciuto e dove continuava a
crescere. Fu in uno di quei giorni sempre uguali che capì, e una lacrima rigò
il suo volto, che era proprio la sua limitata condizione a permettergli di essere
libero. Lo aveva capito – e non era stato tardi - perché lo stava vivendo.
Prigioniero del suo corpo, limitato nei movimenti e per questo libero di andare
a correre in tutti i giardini possibili. Dove il verde è un lungo sentiero che
si staglia indietro e avanti a noi. Ma se si fa attenzione, è anche sotto di
noi. È lo spazio dove stiamo camminando.
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