Forse anche
noi siamo come i palloncini: legati a terra da un filo sottile di legami,
tradizioni, paure e incapacità. Se potessimo tagliarli di netto, senza
rimuginarci troppo sopra, potremo volare. E chi è che non desidererebbe volare?
Andare dove vuole, magari poi tornare, o perché no, continuare ad andare, di
cielo in cielo, senza meta o alla ricerca sempre continua di un orizzonte
nuovo, nell’estasiante bellezza della diversità. Solo che il nostro filo, con
gli anni, diventa una corda; logora sì, ma sempre un corda, che ci ancora a
terra e ci impedisce di partire, di solcare i mari del cielo, sulle onde
bianche delle nuvole e naufragare nei colori dell’alba. Sì, se solo si potesse
nascere e vivere senza fili che ci tengono legati a terra a campare come
marionette di un passato segnato da decisioni sempre sbagliate perché fatte in
momenti diversi, allora sì che si potrebbe essere felici!
Stob era un palloncino. Un solo colore. Sempre lo
stesso. Uguale, identico a sé stesso. Nasceva piccolo, come gli uomini e come
loro era destinato a crescere. Nel suo futuro ci sarebbe stata aria a dargli
vita e vento a disegnargli un futuro. Sì perché i palloncini volano via senza
meta, sbandati e condotti non dalla loro volontà, ma dalla pazzia del vento. E
non c’è modo di opporvisi per rimanere nel posto in cui si sta bene. Perché
laddove si sta bene non si ha voglia di cercare di meglio. Il di più è per chi
non si accontenta e chi non si accontenta non starà mai bene. Questo Stob lo
sapeva bene. Sapeva anche che di aria che lo rendesse vivo, che lo rendesse Stob,
non ne serviva troppa. Troppa lo avrebbe esploso: ucciso. Gliene occorreva il
giusto, concetto ormai desueto tra gli umani, che pensano di essere capaci di
ingurgitare tutto e tutto digerire, mentre invece muoiono di niente o satolli
di qualche sciocchezza. I palloncini sanno come si vive e sanno che la loro
esistenza si esaurisce in una festa o in un gioco, poi vengono gettati via
insieme ai rifiuti puzzolenti. Ad altri, ai più fortunati, è riservato un altro
futuro: il cielo. Quello di volare e poi, anche loro, morire, sciogliendosi
nell’abbraccio del sole, lontano dalla tristezza di un bambino che lo ha visto
esplodere. I palloncini non vivono per esplodere, anche se tutti subiranno
quella fine. I palloncini esistono per i bambini, che hanno bisogno di un filo
(lo stesso, identico, che gli uomini disprezzano) per portarli e poterci
giocare.
L’eternità non è né per i bambini né per i
palloncini, ma entrambi hanno la possibilità di dare un senso alla loro
esistenza, nell’incontro di un gioco, donando a vicenda il proprio tempo e le
proprie fantasie. I palloncini donano la propria vita perché i bambini possano
essere, anche solo per qualche ora, migliori, più colorate e più belle. E
possano permettere ai bambini di fissare il cielo con il nasino all’insù.
Sì, io vorrei essere come Stob: un palloncino nelle
mani di un bambino e spendere la mia vita perché lui sia contento e nella
contentezza guardare il cielo e capire che là dove io mi perdo e sparisco, sì
proprio lì, c’è la vita. La mia come la sua.
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