31.
L’ARGILLA DEL SENTIMENTO POSTO DALLA “TEOLOGIA
DELL’INCONTRO” SOSTITUISCE IL BASALTO DEL GIUDIZIO POSTO DALLA “TEOLOGIA
DELL’ANNUNCIO”.
Considerandola
in altro modo: parrebbe potersi intravede re, se pur da lontano, se pur
vaghissimo, p. es. con il riferimento visto all’ex auditu, o, ancora, al § 41, un certo principio
autoritativo-obbedienziale. Bene. Ma, a parte che sarebbe quasi pressoché
perso, con la sua quasi completa perdita, il principio fondativo del
cattolicesimo, e, con ciò, di tutto l’universo civile e culturale in cui
muovesi l’uomo, dove sono il princìpio di non-contraddizione che lo
governa, la libertà che ne permette il sopruso, il giudizio che
lo difende, la punizione e l’eventuale penitenza che ne
ripristinano il diritto?
Quella che, per questo preciso motivo — e, si badi bene, per nessun altro,
ma questo basta —, da ottima teologia “finale” è stata, isolandola, pervertita
in quella che a mio avviso è una falsissima e pericolosissima teologia
“iniziale”, è stata gonfiata, ampliata, esaltata esattamente per scalzare il
principio ipercattolico e porre sul suo trono un bugiardo principio d’amore:
dire “incontro con una Persona” vorrebbe poter dire “amore con, di,
da e per una Persona”; infatti la presenza estensiva e prepotente,
nella Lettera, di questa teologia, soffoca e snerva senza pietà l’altra: le
brucia per sempre le ali.
Il fatto è che, di per sé, filosoficamente parlando, la “teologia
dell’Incontro”, imperniandosi sul sentimento invece che sul pensiero, ossia
imperniandosi precisamente e volutamente su ciò che, come l’amicizia, è la
presentazione di sé “così come si è” (con relativa accettazione da parte
dell’Altro, cioè di Dio, di ciò che si è noi), vuole escludere a priori ogni
giudizio, ed è ben giusto che ciò succeda, perché essa non è altro che una
“teologia-non-teologia”, e per la filosofia il passaggio dalla “teologia
dell’Annuncio” a quella “dell’Incontro” non è che il passaggio da un insegnamento
a un e- vento, da un concetto a una fenomenologia, da un
ben preciso e circostanziato logos a una vaga e indefinita mozione degli
affetti, ossia dall’idea all’atto, le quali cose, però, così dis-ordinate, non portano solo a un
ribaltamento del loro ordine naturale, frutto malato dell’ameriana « dislocazione
della divina Monotriade », ma pongono tale ribaltamento su due piani
disassati, su due piani ortogonali, perché una cosa è passare da un concetto
all’atto che lo realizza — dalla progettazione, che tiene conto delle
leggi di costruzione, in primo luogo quelle che distinguono il vero dal falso e
il bene dal male, alla fabbricazione -, altra è anteporre l’atto realizzativo
al concetto - la fabbricazione alla progettazione -, magari anche
quest’ultima cancellando del tutto — una fabbricazione senza progetto, senza
leggi, senza distinzione tra vero e falso eccetera —; in una parola: dalla
teoria alla prassi, anteponendo la prassi alla teoria, che è a dire
cancellando, annullando del tutto la teoria. C’è una cosa più grave di questa?
Essa toglie all’atto umano quella coscienza di sé dovuta alla riflessione
filosofica e teologica compiuta attraverso la conoscenza (cioè la parola), e,
tale conoscenza, sia diretta che per testimonianza (di fede). Ma se togliamo
all’atto umano la coscienza che le permette di avere la riflessione, facciamo
dell’uomo una formica, un rospo, una scimmia, un bue.
Sicché chi è invitato a seguire la “teologia-non-teologia dell’Incontro”,
o “dell’Evento”, o “della Persona” — prima tutti i giovani di CL e i fedeli dei
tanti movimenti carismatici (focolarini, pentecostali, neocatecumenali, Taizé,
Bose, Sant’Egidio eccetera), ora poi, per lenta ma costante osmosi, praticamente
tutta la Chiesa — si trova a dover affrontare realtà cui, come per il calcolo
di stabilità di un edificio, non è assolutamente preparato, mancandogli quelle
basi acquisibili solo con la “teologia dell’Annuncio”, della Parola, del Logos,
cioè dell’Insegnamento intorno a Quella Persona (che pur andrà
incontrata, e al cui incontro tutto è subordinato, ma un giorno: solo in
Paradiso).
In altre parole, l’amore non può precedere la fede, né la dottrina che lo
disegnano e configurano in quell’amore lì (nel- l’“amore di dedizione”,
o caritas), e senza le quali esso, privo di ogni individuazione, di ogni
base, di ogni specificazione, di ogni distinzione, e di altre nozioni così, o
almeno privo di tutte quelle specificazioni contenute in una corretta “teologia
dell’Annuncio”, verrebbe avvicinato, o persino identificato, con le erronee
nozioni di “amore” di altre confessioni religiose e persino di concezioni
irreligiose e antireligiose, come infatti sta drammaticamente avvenendo nelle
nostre società, prone ormai da tempo agli insegnamenti distribuiti a piene mani
dal laicismo dittatoriale imperante.
Peggio. Quella che, spostata dal suo corretto luogo conclusivo e finale,
si impoverisce in una tutta fenomenologica, soggettiva ed esistenzialistica
“teologia dell’Incontro”, o “dell’Esperienza”, o “dell’Evento” (ma dire
“esperienza”, o “evento”, è dire Heidegger, è dire fenomenologia esistenziale
e antimetafisica), ha in cinquant’anni vanificato e reso del tutto obsoleta,
di più: sgradevole, spregevole, insopportabile, la vera, santa, millenaria, e
specialmente metafisica, oggettiva e dogmaticamente aletica “teologia
dell’Annuncio”. Ha reso irrespirabile l’unico luogo teologico della Chiesa che
dovrebbe essere considerato assolutamente vitale a ogni altro passo (il quale
passo, poi, comunque, non può che essergli successivo).
La “teologia
dell’Incontro”, così santa, desiderabile e gloriosa se posta nel suo luogo
deputato, se posta cioè come la Terza Persona è posta dopo il Logos
che è la Seconda, fa terra bruciata di ogni nozione che si presenti come legge,
comando, giudizio di verità, con tutti i conseguenti contrappesi di
obbedienza, obbligazione, anathema e peccato, sicché avviene che il
dogma, sulla strada luminosa e solare della comunione d’anime - direbbe qui il
politologo Paolo Franchi, che così scrisse a proposito della tradizione
politico-culturale dei cattolici democratici secondo i politici e i
commentatori del momento -,
il dogma, dicevo, viene lasciato lì, in mezzo alla strada, « come un cane
morto » (Corriere della Sera, 3-9-13).
[E. M. Radaelli – La Chiesa ribaltata]
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