Conobbi un uomo una sera di dicembre
Conobbi un uomo una sera di dicembre, faceva
freddo, questo me lo ricordo. Ricordo solo il freddo, perché mi aveva preso il
cervello e mi preoccupavo di come tamponarlo, di come resistere. Di quell’uomo
non ricordo altro e questo mi dispiace. Non ricordo i suoi lineamenti, il suo
tono di voce, tanto che a volte mi domando se egli fu una mia illusione. Ma poi
mi ritrovo quella lettera che mi scrisse e capisco che è stata realtà, perché
quella lettera non me la sono scritta da solo. Non mi ricordo altro di quella
sera, forse perché fa comodo dimenticare. Eppure ho sempre desiderato ricordare
quanto mi accade nella vita; ho sempre avuto paura di dimenticare. Anche le
cose brutte volevo averle sempre con me. Il ricordo, certo. Perché così potevo
confrontarmici continuamente; non cadere nello sconforto quando le cose non
vanno, perché ricordi di essere stato anche peggio e di saper gustare le cose
per quelle che sono, la bellezza della loro semplicità, perché ricordi che prima
non le avevi. Di quella notte, io però, non ricordo niente. Ricordo che
girovagavo per le strade di quella città dove mi trovavo di passaggio e mi
guardavo intorno alla ricerca di qualcosa. Un particolare, qualcosa che potesse
colpirmi e stupirmi. Mi piace stupirmi, sorprendermi delle cose ordinarie. Per
questo ho bisogno di ricordare. Mi piace scoprire la bellezza di una cosa
ovvia, l’accarezzo con lo sguardo e la guardo con un sorriso semplice, di
quelli dei bambini. A volte so ancora essere un bambino, quando mi stupisco
appunto. Ho perso molta ingenuità, molta leggerezza nelle cose. Non so se è
inevitabile nella crescita o se si può resistere. Non so quando è successo,
altra cosa che non ricordo, ma so che prima c’era e ora non c’è. Manca il
momento, ma una frattura c’è stata. Giravo appunto per questa città cercando di
non pensare, cercando di guardare e sorridere con forza a quello che mi
accadeva intorno: gli abbracci e i baci dei fidanzati, le urla degli amici, i
silenzi degli anziani e la serietà dei lavoratori. Tutte cose ordinarie, che
non ci stupiscono più perché le abbiamo acquistate tante e tante volte e come
un vestito a cui eravamo legati da piccoli oggi non ci piace più. Oggi non ci
starebbe nemmeno più, ma anche il gusto è cambiato e ci sentiamo ridicoli di
aver tanto amato quella cosa. Così pensiamo che il valore delle cose dipenda
dal prezzo e dalla novità. Ciò che è già stato, ciò che è semplice non ci
convince. Pensiamo sempre che ci sia una fregatura dietro. Che buffo. Poi ci
riempiamo le orecchie di discorsi, la bocca di parole, la testa di concetti,
sulla semplicità e su tutto il resto, ma poi quando ce l’abbiamo accanto non la
riconosciamo perché cerchiamo lo straordinario. Sì lo straordinario. Penso che
a volte saremmo capaci di apprezzare un graffio su un bel quadro solo perché è
qualcosa di nuovo e di diverso. Non siamo più capaci di comprendere l’armonia,
di gustarne la pace, la quiete. Pensavo a tutto questo quella sera di dicembre
e sorridevo, sì, ma amaramente, perché tante e tante volte ci cadevo anche io
in quegli errori. E mi sentivo più cretino di tutti gli altri; perché io me ne
rendevo conto e sbagliavo. Altri magari non rendendosene conto l’errore che
commettevano era meno grave. Non saprei, ma a me questa cosa ha sempre pesato.
Fai una gran fatica per capire e imparare, anche a costo di lacrime e
sacrifici, e poi ti perdi per una banalità. Mandi all’aria il bel castello
della tua vita, quello dove vorresti accogliere la tua principessa, per una
sciocchezza che a ripensarci di verrebbe voglia di bruciare tutti i mazzi di
carte che hai, ed evitare di costruire castelli. Fallimenti per fallimenti
meglio lasciar perdere, no? Questo pensavo e non mi resi conto che parlavo a
voce un po’ più alta. Mi capita spesso di farlo, c’è chi mi prende per matto,
chi per maleducato. Parlando ad alta voce qualcuno mi deve aver sentito. Chissà
cosa avrà sentito, io che sono geloso dei miei pensieri. Sia perché sono una
parte intima di me, sia perché spesso per maturare un convincimento passo per
strade mentali discutibili e, sinceramente, me ne vergogno. Sì mi vergogno dei
miei pensieri, non perché sono i miei li amo. Non amo tutto ciò che è mio solo
perché è mio. Amo il buono e il bello e per quel che sono buono e bello mi amo.
Per il resto cerco di lavorarci, ma poi sono più i fallimenti che i successi e
i successi quando arrivano durano poco e vengono fagocitati dal successivo
fallimento. Ci penso a queste cose e spesso mi domando a che serve faticare
così tanto se poi quello che resta di una sigaretta accesa è la cenere e il
fumo si è omologato all’aria e il sapore se ne va così tanto in fretta che hai
bisogno di un’altra per goderne ancora. Solo che poi i pacchetti finiscono,
così come finiscono le vite e non siamo in un videogame dove si può
ricominciare, magari da un punto particolare dove avevamo salvato il progresso
raggiunto. No, non è così. I rischi si corrono e sono rischi proprio perché è
un continuo all in in cui puoi
perdere tutto quello che hai puntato. Le puntate parziali servono per fare
bottino, per poi fare una scommessa seria, quella che dà senso alla vita. Ma se
poi fallisci anche questa? Non so a che punto del mio pensare e del mio vagare
incontrai quell’uomo di cui non mi ricordo nulla. Mi ricordo che ci parlai, o
forse lui ascoltò soltanto. Non saprei. Mi ricordo che mi salutò e mi diede una
busta. Ricordo anche che quell’incontro, per quanto misterioso, mi
tranquillizzò i pensieri. Rimasi del tempo seduto sui gradini dell’ingresso
della casa di non so chi, con lo sguardo perso nel vuoto. Qualcuno passava,
qualcuno entrava nelle proprie abitazioni o in quelle di qualche amico. Io,
invece, ero lì. Fermo. Chissà se qualcuno se ne era reso conto e si domandava
il perché. Chissà se qualcuno pensava che stava incrociando la mia vita, anche
se non gliene sarebbe fregato nulla era comunque un fatto unico. Non credo
qualcuno ci pensasse. Incominciò a tremarmi la mano quando aprii quella busta.
Poteva esserci di tutto, minacce, parole, foto. Anche niente. Sì, potevo aver
ricevuto una busta vuota. L’assurdità di tale pensiero mi fece ridere, ma forse
fu una delle cose più sensate che provai quella sera, perché l’assurdità di
aver ricevuto una busta vuota era la stessa dell’aver ricevuto una busta.
Assurdo per assurdo ogni cosa può aver valore e senso. Comunque non era vuota,
ma c’erano dentro queste parole:
Tu piangi
e non
vergognarti di farlo.
Ma quando lo
fai
non farlo
davanti a tutti
perché per
qualcuno sarà un pianto da deridere,
per altri da
ignorare,
difficilmente
in una massa
troverai chi
ti possa consolare.
Tu soffri
e non
vergognartene,
perché si ama
nella sofferenza;
si cresce, si
matura e si levigano le nostre imperfezioni.
Tu sogna
e fregatene
di chi te lo rimprovera.
Tu credi
e vivi tutta
la tua vita sul tuo Credo.
Sii sempre
pronto
non tanto
alle critiche ,
quanto a
sopportare la meschina sufficienza,
a volte
proprio di chi ti conosce meglio,
che priva di
risposte,
ti silenzia
con qualche umiliazione.
Tu vivi,
intensamente
totalmente
mai
parzialmente.
Dai sempre
tutto
e ti
accorgerai che spesso
non sarà
stato sufficiente;
spesso sarà
rifiutato
o usato per
ferirti,
ma tu
vivi.
Vivi,
intensamente
totalmente
mai
parzialmente
perché
non è vita
quella che
cerca il consenso di tutti
non è vita
quella che
fugge il dolore
non è vita
quella che
non si spende
per quello in
cui crede
per quello
che ama.
C’è qualcuno
che ha bisogno della tua luce e del tuo calore. Tu daglielo. Anche a costo di
morire.
Finito di leggere mi svegliai. Ma non ricordo
quando mi addormentai.
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