martedì 11 febbraio 2014

Conobbi un uomo una sera di dicembre

Conobbi un uomo una sera di dicembre, faceva freddo, questo me lo ricordo. Ricordo solo il freddo, perché mi aveva preso il cervello e mi preoccupavo di come tamponarlo, di come resistere. Di quell’uomo non ricordo altro e questo mi dispiace. Non ricordo i suoi lineamenti, il suo tono di voce, tanto che a volte mi domando se egli fu una mia illusione. Ma poi mi ritrovo quella lettera che mi scrisse e capisco che è stata realtà, perché quella lettera non me la sono scritta da solo. Non mi ricordo altro di quella sera, forse perché fa comodo dimenticare. Eppure ho sempre desiderato ricordare quanto mi accade nella vita; ho sempre avuto paura di dimenticare. Anche le cose brutte volevo averle sempre con me. Il ricordo, certo. Perché così potevo confrontarmici continuamente; non cadere nello sconforto quando le cose non vanno, perché ricordi di essere stato anche peggio e di saper gustare le cose per quelle che sono, la bellezza della loro semplicità, perché ricordi che prima non le avevi. Di quella notte, io però, non ricordo niente. Ricordo che girovagavo per le strade di quella città dove mi trovavo di passaggio e mi guardavo intorno alla ricerca di qualcosa. Un particolare, qualcosa che potesse colpirmi e stupirmi. Mi piace stupirmi, sorprendermi delle cose ordinarie. Per questo ho bisogno di ricordare. Mi piace scoprire la bellezza di una cosa ovvia, l’accarezzo con lo sguardo e la guardo con un sorriso semplice, di quelli dei bambini. A volte so ancora essere un bambino, quando mi stupisco appunto. Ho perso molta ingenuità, molta leggerezza nelle cose. Non so se è inevitabile nella crescita o se si può resistere. Non so quando è successo, altra cosa che non ricordo, ma so che prima c’era e ora non c’è. Manca il momento, ma una frattura c’è stata. Giravo appunto per questa città cercando di non pensare, cercando di guardare e sorridere con forza a quello che mi accadeva intorno: gli abbracci e i baci dei fidanzati, le urla degli amici, i silenzi degli anziani e la serietà dei lavoratori. Tutte cose ordinarie, che non ci stupiscono più perché le abbiamo acquistate tante e tante volte e come un vestito a cui eravamo legati da piccoli oggi non ci piace più. Oggi non ci starebbe nemmeno più, ma anche il gusto è cambiato e ci sentiamo ridicoli di aver tanto amato quella cosa. Così pensiamo che il valore delle cose dipenda dal prezzo e dalla novità. Ciò che è già stato, ciò che è semplice non ci convince. Pensiamo sempre che ci sia una fregatura dietro. Che buffo. Poi ci riempiamo le orecchie di discorsi, la bocca di parole, la testa di concetti, sulla semplicità e su tutto il resto, ma poi quando ce l’abbiamo accanto non la riconosciamo perché cerchiamo lo straordinario. Sì lo straordinario. Penso che a volte saremmo capaci di apprezzare un graffio su un bel quadro solo perché è qualcosa di nuovo e di diverso. Non siamo più capaci di comprendere l’armonia, di gustarne la pace, la quiete. Pensavo a tutto questo quella sera di dicembre e sorridevo, sì, ma amaramente, perché tante e tante volte ci cadevo anche io in quegli errori. E mi sentivo più cretino di tutti gli altri; perché io me ne rendevo conto e sbagliavo. Altri magari non rendendosene conto l’errore che commettevano era meno grave. Non saprei, ma a me questa cosa ha sempre pesato. Fai una gran fatica per capire e imparare, anche a costo di lacrime e sacrifici, e poi ti perdi per una banalità. Mandi all’aria il bel castello della tua vita, quello dove vorresti accogliere la tua principessa, per una sciocchezza che a ripensarci di verrebbe voglia di bruciare tutti i mazzi di carte che hai, ed evitare di costruire castelli. Fallimenti per fallimenti meglio lasciar perdere, no? Questo pensavo e non mi resi conto che parlavo a voce un po’ più alta. Mi capita spesso di farlo, c’è chi mi prende per matto, chi per maleducato. Parlando ad alta voce qualcuno mi deve aver sentito. Chissà cosa avrà sentito, io che sono geloso dei miei pensieri. Sia perché sono una parte intima di me, sia perché spesso per maturare un convincimento passo per strade mentali discutibili e, sinceramente, me ne vergogno. Sì mi vergogno dei miei pensieri, non perché sono i miei li amo. Non amo tutto ciò che è mio solo perché è mio. Amo il buono e il bello e per quel che sono buono e bello mi amo. Per il resto cerco di lavorarci, ma poi sono più i fallimenti che i successi e i successi quando arrivano durano poco e vengono fagocitati dal successivo fallimento. Ci penso a queste cose e spesso mi domando a che serve faticare così tanto se poi quello che resta di una sigaretta accesa è la cenere e il fumo si è omologato all’aria e il sapore se ne va così tanto in fretta che hai bisogno di un’altra per goderne ancora. Solo che poi i pacchetti finiscono, così come finiscono le vite e non siamo in un videogame dove si può ricominciare, magari da un punto particolare dove avevamo salvato il progresso raggiunto. No, non è così. I rischi si corrono e sono rischi proprio perché è un continuo all in in cui puoi perdere tutto quello che hai puntato. Le puntate parziali servono per fare bottino, per poi fare una scommessa seria, quella che dà senso alla vita. Ma se poi fallisci anche questa? Non so a che punto del mio pensare e del mio vagare incontrai quell’uomo di cui non mi ricordo nulla. Mi ricordo che ci parlai, o forse lui ascoltò soltanto. Non saprei. Mi ricordo che mi salutò e mi diede una busta. Ricordo anche che quell’incontro, per quanto misterioso, mi tranquillizzò i pensieri. Rimasi del tempo seduto sui gradini dell’ingresso della casa di non so chi, con lo sguardo perso nel vuoto. Qualcuno passava, qualcuno entrava nelle proprie abitazioni o in quelle di qualche amico. Io, invece, ero lì. Fermo. Chissà se qualcuno se ne era reso conto e si domandava il perché. Chissà se qualcuno pensava che stava incrociando la mia vita, anche se non gliene sarebbe fregato nulla era comunque un fatto unico. Non credo qualcuno ci pensasse. Incominciò a tremarmi la mano quando aprii quella busta. Poteva esserci di tutto, minacce, parole, foto. Anche niente. Sì, potevo aver ricevuto una busta vuota. L’assurdità di tale pensiero mi fece ridere, ma forse fu una delle cose più sensate che provai quella sera, perché l’assurdità di aver ricevuto una busta vuota era la stessa dell’aver ricevuto una busta. Assurdo per assurdo ogni cosa può aver valore e senso. Comunque non era vuota, ma c’erano dentro queste parole:

Tu piangi
e non vergognarti di farlo.
Ma quando lo fai
non farlo davanti a tutti
perché per qualcuno sarà un pianto da deridere,
per altri da ignorare,
difficilmente in una massa
troverai chi ti possa consolare.

Tu soffri
e non vergognartene,
perché si ama nella sofferenza;
si cresce, si matura e si levigano le nostre imperfezioni.

Tu sogna
e fregatene di chi te lo rimprovera.

Tu credi
e vivi tutta la tua vita sul tuo Credo.
Sii sempre pronto
non tanto alle critiche ,
quanto a sopportare la meschina sufficienza,
a volte proprio di chi ti conosce meglio,
che priva di risposte,
ti silenzia con qualche umiliazione.

Tu vivi,
intensamente
totalmente
mai parzialmente.
Dai sempre tutto
e ti accorgerai che spesso
non sarà stato sufficiente;
spesso sarà rifiutato
o usato per ferirti,
ma tu
vivi.

Vivi,
intensamente
totalmente
mai parzialmente
perché
non è vita
quella che cerca il consenso di tutti
non è vita
quella che fugge il dolore
non è vita
quella che non si spende
per quello in cui crede
per quello che ama.

C’è qualcuno che ha bisogno della tua luce e del tuo calore. Tu daglielo. Anche a costo di morire.


Finito di leggere mi svegliai. Ma non ricordo quando mi addormentai.

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