Fare il bene è un comandamento, oltre che una necessità. Ma non sempre lo facciamo. Principalmente perché la nostra natura è ferita dal peccato originale. Verità fondamentale la cui cognizione Chesterton considerava la buona notizia portata dal Vangelo, ma che noi cattolici moderni trascuriamo, perché imbevuti di positivismo e buonismo che non ci fanno vedere il male e, laddove lo vediamo, lo depotenziamo ridicolizzandolo, ma soprattutto sottovalutandolo. Altro motivo per cui non facciamo il bene è perché non sappiamo cosa esso sia. Ma soprattutto non sappiamo chi siamo noi. “False mete e ideali errati nascono da false o difettose interpretazioni della verità dell’essere” [J. Pieper – La fortezza] Il bene è specifico del reale, non dell’utopico. Se non sappiamo chi siamo, come possiamo fare il bene? Se non sappiamo cos’è il bene che cosa perseguiamo? Purtroppo oggi non solo i santoni mondani, ma anche le guide spirituali, non ci guidano più a quale sia il vero bene. Tutto viene lasciato al giudizio insindacabile della coscienza. Anche chi abortisce, chi violenta, chi maltratta pensa di fare il bene. Il proprio o dell’altro poco importa. Questi però non possono essere considerati beni, anche se procurano piaceri ed eliminano fastidi. Se però chi di dovere non ha più la forza, il coraggio, la voglia (e la capacità?) di indicare il bene, allora è un bel problema. Problema che si riflette poi soprattutto nelle nuove generazioni, orfane di guide e di educatori, capaci non di indicare una strada da perseguire, anche a costo di sacrifici, ma capaci solo di addolcire pillole (o non somministrarle affatto) a malati terminali quali sono i giovani, che devono maturare e diventare uomini, pena il rimanere eternamente dei bambocci. Prede ottime di manipolatori. Troppo spesso poi i moderni educatori dividono la vita in due parti. Secondo loro esisterebbe una vita seria e una vita meno seria. Nella prima, che rimandano il più possibile, non esistono responsabilità e scelte, esistono solo istinti, passioni e utopie. La seconda, che sperano non arrivi mai (e quando arriva la rimandano), è quella della famiglia, del matrimonio, dei figli, del lavoro e delle scelte impegnative. Essendo però stati educati a “fai quel che ti senti” e “segui i tuoi sogni”, non saranno mai capaci di assumersi pesi così gravosi. Ecco allora lo sfascio generazionale che stiamo vivendo e al quale non essendo stato posto un freno si aggraverà sempre di più. Oltretutto, per rimanere in tema, chi volesse praticare il bene, è vittima di quella che chiamo “l’utopia della cosa giusta”. Spesso, anche in ambienti cattolici, si sente ripetere che “bisogna fare la cosa giusta”. Che di per sé è sacrosanto, ma posta così (e anche quando viene spiegata) questa affermazione risulta una condanna micidiale alle potenzialità e alla volontà degli uomini. Il bene non ha una sola strada. Fare il bene non è giocare alla roulette russa, dove uno solo dei proiettili è quello buono. Così come il male. La vita non è un’equazione che dà un solo risolto (la cosa giusta appunto) e che questo risultato sia lo stesso per tutti. La vita è un’equazione a più incognite, tra cui risulta quella della persona da amare, destinataria del nostro bene. L’altra incognita siamo noi. Spesso siamo proprio noi stessi a non conoscerci, a non capire quanto valiamo, perché magari schiavi di un’ideale di persona giusta da perseguire. E seppur noi, nel nostro voler bene, dessimo tutto quanto è in nostro possesso, non è detto che l’incognita del nostro prossimo sia un valore positivo. Potrebbe non essere disposto a ricevere (per una serie indefinibile di motivazioni) il nostro, anche spropositato, bene. La vita non è una formula che si ripete sempre uguale. Le persone cambiano, le situazioni mutano, il bene resta lo stesso sempre, ma bisogna saperlo incarnare, realizzare nella storia. Nella nostra storia e in quella di chi abbiamo incontro e che amiamo. L’utopia della cosa giusta, purtroppo, fonda la sua utopia sul gravissimo e malsano presupposto che amare e fare il bene debba portare ad un successo, ad ottenere qualcosa. Non ottenendolo, si conclude, non si è fatta la cosa giusta. Come se tutto fosse già stato scritto e noi fossimo meri burattini di uno sconosciuto regista. Dobbiamo perseguire, personalmente ma anche educare a farlo, una vita virtuosa. La nostra vita è una e questa va vissuta virtuosamente, non accontentandoci di pause, di soste, di fine primi tempo dove poter scegliere e perseguire il vizio, come se questo fosse a volte concesso. È una scelta impegnativa, certo, ma è l’unica vera e che dà senso all’esistenza.
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