mercoledì 11 settembre 2013

Ogni epoca ha le sue fortune e altrettante paure. Sbaglia chi guarda solo alle fortune, diventando un cieco ottimista, e altrettanto sbaglia chi guarda solo alle paure, diventando un cieco pessimista, condannati entrambi a vivere in un mondo immaginario, di certo non reale, dove esistono solo fortune o paure e mai l’insieme di entrambe. Viviamo oggi un’epoca anche in questo esasperata, esaltata, folle. Che guarda a ridicoli e sballati ideali, ignorando la realtà e le leggi che la governano. Oggi viviamo una sindrome di unicità e relativa paura dell’ordinario. Tutto ciò che è normale, ordinato, ordinario e quotidiano è da fuggire come la peste; tutto ciò che è straordinario, unico e irripetibile è, invece, da perseguire come il fine ultimo dell’esistenza. Probabilmente la somma di tutte queste unicità darà l’esito di un’esistenza vissuta degnamente o meno. Non so quale sia il metro di valutazione, so solamente che è una visione folle, omicida, che conduce nemmeno troppo lentamente alla follia. Perché quando la fantasia finisce, per quanto quella del male è umanamente feconda, non resta altra strada che impazzire non trovando più un senso alla propria vita. Anche perché non tutte le età, non tutte le persone, hanno le stesse possibilità e potenzialità. E ciò che è unico e irripetibile per la massa dominante, che lo impone nei media, non lo è per chi segue e subisce queste imposizioni. Ecco allora che la frustrazione nasce fin da principio quando non si riesce a sincronizzare la propria vita con quella presentata come un modello. Quella di oggi è un’epoca che ha paura, dicevo, dell’ordinario, del quotidiano. Vive solo per lo straordinario. Ma esso, lo straordinario, è tale solo e soltanto in presenza di un ordinario. Tolto questo anche lo straordinario perde di senso e di possibilità di sussistere. Va bene andare oltre la massificazione, ma attenzione a non cadere nell’altrettanto pericolosa, figlia del relativismo, massificazione della diversità. La vita viene presentata e proposta come se essa fosse un film. I film dove tutto volge sempre al bene, dove i fallimenti, le delusioni, le sconfitte, sono solo temporanee, parziali, finalizzate a ricomporre i pezzi per sferrare l’attacco finale che, alla fine, conduce alla vittoria, alla conquista. Infatti non sappiamo più accettare una sconfitta definitiva. Non siamo in grado di perdere. Bambini viziati, diventati poi adulti, che cercano sempre qualcosa di diverso da quello che hanno, perché quello che hanno non va bene per il semplice motivo che già lo possiedono. Siamo bombardati da messaggi di conquista, mai di conservazione. Il vero uomo non è solo quello che attacca, ma è anche quello che difende. E nella difesa di ciò che ha, rischia anche la vita. Solo che conservare e difendere sono lavori faticosi, che non producono entusiasmo. Richiedono abnegazione, pazienza, fiducia e una profonda convinzione. Noi non abbiamo più queste capacità, perché il fine della vita non è più posto nel tempo e nella sua sublimazione, l’eternità, ma nell’immediato, nell’estemporaneo. Che appena raggiunto si dilegua. E appena ottenuto rivela anche la sua profonda povertà. Nell’ordinario si costruisce. Nel paziente scorrere dei giorni si edifica ciò che rende possibile vivere, amare, dare futuro alla società. Nell’immediato gesto, voluto o folle, si distrugge. E spesso si distrugge quello che pazientemente e diligentemente altri, nel passato, hanno costruito.

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