«In molti punti gli eretici sono con la Chiesa, in qualche altro no; ma, a causa di questi pochi punti in cui si separano dalla Chiesa, non serve loro a nulla di essere con Essa in tutto il resto» [sant'Agostino] Questa chiarissima espressione di sant’Agostino dovrebbe molto far riflettere. Sia perché a pronunciarla è stato un santo del carisma di Agostino, sia perché è molto attuale e urgente nella crisi che la Chiesa sta vivendo. E si tratta più di una crisi ad intra, che ad extra. La Chiesa i maggiori problemi che ha non li ha verso il mondo (e già questo è molto significativo), quanto piuttosto con sé stessa, al suo interno. Ed è da questa crisi interna che la Chiesa è incapace di santificare il mondo. Gli ottimi rapporti che intercorrono tra la Chiesa e il mondo (con il plauso dei nostri cari vescovi e sacerdoti) non sono figli di una conversione del mondo alla Chiesa, quanto piuttosto di una conversione, che bisognerebbe correttamente chiamare apostasia, della Chiesa al mondo. Nella sua dottrina, nella liturgia, nella predicazione, nella pastorale, nella morale, eccetera. La radice è una e le conseguenze sono tante. La crisi, a mio avviso, sta, come disse l’allora cardinal Ratzinger, in una crisi di fede. Ma non, come si potrebbe pensare, che si crede poco. No, oggi forse più che in passato si crede a tutto. Il problema, invece, è che si crede male. Malissimo. Ecco dove prolificano gli eretici ed ecco il senso dell’affermazione di sant’Agostino. L’eresia non è solo e soltanto la negazione completa della dottrina cattolica. Eretico anche chi nega o tradisce un solo iota, una piccolissima parte, di quello che è il deposito della fede, la dottrina, della Chiesa. Oggi, senza voler necessariamente fare l’apocalittico, qualcuno può onestamente sostenere che nella Chiesa c’è ortodossia? Non su cose accessorie, ma su cose fondamentali, dogmatiche. Sulla natura dei sacramenti, sulla Rivelazione, sulla Chiesa stessa, sul Primato del Papa e tanto - troppo – altro. A questo punto sollevo una domanda. Ci si lamenta, ovunque (non sempre a torto), che non è cattolico chi si professa tale e poi ha uno stile di vita antievangelico, disinteressato dei poveri, chiuso in sé, eccetera. Senza entrare nel merito prendiamo per vero questo assunto. Allora, ecco la domanda, non è almeno altrettanto legittimo dubitare di chi a parole sostiene di essere cattolico e poi nei fatti non lo è? Senza anche qui entrare in uno sterminato campo di esempi ma, repetita juvant, può definirsi e considerarsi cattolico chi celebra la Messa come fosse una cena (con tavoli, prendendo il cibo in mano, senza adorazione e ringraziamento, eccetera)? Può definirsi e considerarsi cattolico chi sostiene che Dio perdona tutto, che non è necessario il pentimento, che l’inferno è vuoto, che il Papa ha lo stesso potere dei vescovi, che laici e preti hanno lo stesso sacerdozio, che le altre religioni sono uguali a quella cattolica, che quel che conta è lo spirito e mai la lettera, che il fondamento della fede è la Bibbia e non la Tradizione, eccetera? Io dico di no. Basta solo un piccolo mutamento della dottrina e si finisce per essere eretici. Con tutto quello che ne dovrebbe conseguire. E cioè condanna pubblica, esplicita, chiara e decisa da parte dell’autorità ecclesiastica, con annessa riaffermazione della dottrina vera, cattolica. Oggi la condanna è fuggita e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Oggi, paradossalmente, si condanna solo chi crede fermamente nella dottrina che sempre la Chiesa ha professato e gelosamente custodito. Che l’Autorità ecclesiastica non condanni, diciamolo chiaro e tondo, non legittima l’eresia, anzi! Ne favorisce il dilagare, certo, ma non può e non potrà mai trasformarla per vera. La si può camuffare quanto vuole, e molti si perdono e dannano, ma non la si potrà trasformare mai del tutto. E allora non ha senso stracciarsi le vesti quando si denuncia un’eresia, adducendo a difesa di quel criminale (l’eresia è un crimine!) che è solo una piccola visione diversa delle cose, che bisogna tutelare il pluralismo, le differenze e che bisogna guardare a ciò che ci unisce e non ciò che divide. Se rileggiamo l’affermazione di sant’Agostino citata all’inizio, crolla tutto il sistema ecumenico messo in piedi nell’ultimo secolo. Che senso ha guardare a ciò che unisce, ignorando ciò che divide, se anche un granello di quel che divide esclude ipso facto dalla comunione con la Chiesa cattolica, la Chiesa di Gesù Cristo. Non sarebbe piuttosto più caritatevole preoccuparsi di ciò che divide, per sanare la divisione, e permettere all’eretico di riottenere la comunione con la Chiesa cattolica. E non per un mero esercizio di numeri (più siamo meglio stiamo), quanto per una questione, fondamentale per la Chiesa, di salus animarum, salvezza delle anime. Che è la vera, unica, preoccupazione che la Chiesa deve avere. E a questo punto è interessantissimo (e, come sempre, gustosissimo) quanto scrive Rino Cammilleri. E nello specifico nella sua biografia in forma di romanzo di sant’Antonio da Padova, titolo Io e il Diavolo. Leggiamo: “Talvolta può accadere che il pastore, per un malinteso eccesso di pietà, stia troppo alla ricerca di una pecorella smarrita che rifiuta d farsi recuperare; e, al suo ritorno, trovi che le altre novantanove dell’ovile, prive di custodia, si sono perdute anche loro”. Va bene preoccuparsi della pecorella smarrita ma, cari pastori, preoccupatevi anche delle altre novantanove. Perché se le trascurate, se le ignorate, se non le controllate, fuggono anche loro e piano piano, come accade da troppo tempo, aumentano il numero delle pecorelle smarrite. E aumenta la fatica di andarle a recuperare. Non lasciate vuoto l’ovile di Cristo. È una supplica! Se io, parlo a nome personale, sono la pecorella smarrita, venitemi a prendere. Se faccio parte, invece, della altre novantanove (o quanti siamo rimasti), venite a prendervi cura di noi.
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