sabato 9 marzo 2013

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. 
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. 
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”». 
[Lc 15,1-3.11-32] 

Il Vangelo del Padre misericordioso (o del figliol prodigo che dir si voglia), è una di quelle pagine evangeliche che più commuovono, che più piacciono l’opinione pubblica e che, di conseguenza, più traviano il mondo cattolico. Specie quel mondo cattolico che, svincolato dallo studio e dalla conoscenza della dottrina cristiana, riduce la fede cattolica al sentimento del “volemose bene” che, come detto, in questa pagina del Vangelo di Luca, tanto sembra ben fondarsi. Sembra, ma non è. Il primo punto fondamentale di questo Vangelo è la questione del perdono. Su di esso si fonda tanta pastorale di oggi e da essa, da dubbi e discutibili buoni risultati, vi si costruisce sopra un altrettanto dubbia e discutibile teologia. Non sono, come tengo spesso a sottolineare, un esperto di teologia ma, nonostante i miei limiti e problemi, credo che la ragione ancora mi funzioni e, soprattutto, la fede, fondata sulla conoscenza del catechismo, mi aiuti ad analizzare questo Vangelo. Tanto per sgombrare il campo da ogni dubbio e da ogni deviazione: troppo spesso si sente ripetere che bisogna perdonare a destra e manca, bisogna perdonare tutti indistintamente, bisogna andare incontro a chi ci ha fatto un torto, farsi carico delle sue colpe e perdonarlo, forse addirittura imporgli il nostro perdono. Non so se Gesù sia stato un antesignano di Pannella, inneggiando l’amnistia incondizionata, ma da questo Vangelo viene dimostrato quello che per me è sempre stato un sospetto fondato sull’allergia di tanto buonismo. E cioè che il padre, uno dei protagonisti del Vangelo, non va alla ricerca del figlio, non va in giro per il mondo disperatamente a cercare cosa stia facendo e che fine abbia fatto, con il pallino di dirgli “ti voglio perdonare” o “voglio darti il mio perdono”. È il figlio che deve, lo vedremo meglio tra poco, pentirsi e tornare sulla strada di casa. Appena la imbocca, cioè appena risulta visibile per il padre, quest’ultimo gli corre incontro ad abbracciarlo, ma prima il figlio, per motivazioni più o meno sante, deve pentirsi di quello che ha fatto, allontanarsi dalla propria situazione di peccato e ritornare alla casa del Padre. Questo, concedetemi la digressione, per la dottrina cattolica, è il sano ecumenismo. Non il “prendiamo ciò che ci unisce, scartando ciò che ci divide, tanto ci vogliamo tutti bene e in fondo in fondo tutti crediamo le stesse cose”. Digressione terminata. Il figlio, quindi, deve pentirsi. Che, a pensarci bene, è una delle parti costitutive del Sacramento della Penitenza (argh! della Confessione o Riconciliazione, mannaggia a me che uso certi termini fuori moda). Per chi non lo sapesse (cioè molti di quanti sono usciti dal catechismo nelle parrocchie) perché una confessione sia valida, buona ed efficace, non basta andare da un prete e dirgli i nostri peccati. Servono altre cose. Cioè? “Per fare una buona confessione si richiedono cinque cose: 1° l'esame di coscienza; 2° il dolore dei peccati; 3° il proponimento di non commetterne più; 4° la confessione; 5° la soddisfazione o penitenza.” [Catechismo san Pio X, §358] L’esame di coscienza. Bisogna rendersi conto di aver peccato, di aver sbagliato di fronte a Dio. Di fronte a Dio, non di fronte agli uomini, perché sennò parleremo di reato, non di peccato. Bisogna esaminare la coscienza alla luce della Parola di Dio e dell’insegnamento della Chiesa, non esaminare i peccati alla luce della nostra coscienza. Il dolore dei peccati. Bisogna provare dolore per quanto si è commesso, non indifferenza o convinzione. Non vado a confessare di aver rubato se sono convinto che quel furto è stato buono e giusto. Il dolore, prosegue poi il santissimo Catechismo di san Pio X, può essere perfetto o imperfetto (contrizione o attrizione). Perfetto quando “nasce da un motivo perfetto, cioè dall'amore filiale di Dio o carità, e perchè ci ottiene subito il perdono dei peccati, sebbene resti l'obbligo di confessarli.”, imperfetto quando si ha “il dispiacere dei peccati commessi, per il timore dei castighi eterni e temporali, o anche per la bruttezza del peccato”. Di attrizione possiamo parlare per il figlio dell’episodio evangelico. Egli si pente di quanto ha fatto perché ha fame e si trovava nel bisogno, non per altro. È un motivo imperfetto, ma comunque necessario e sufficiente. Il proponimento di non commetterli più. Basterebbe il buon senso: non confesso una cosa che per me non è sbagliata, considerando anche che la vorrò rifare (che è diverso dal temere di rifarla). Ecco perché l’assoluzione non si dà (e, di conseguenza, non si può ricevere l’Eucarestia) a chi vive in una situazione di peccato (divorzio, convivenza, eccetera). Dicevo che basterebbe il buon senso, ma so di assoluzioni date senza pentimento, quindi forse può essere utile ricordare anche l’ovvio. La confessione. Dire al prete i peccati commessi. Tutti. La specie, il numero e le circostanze. Niente cose vaghe e generiche. Infine, la soddisfazione o la penitenza. Pratica trascurata, ignorata, o banalizzata. Se ho rubato, non basta pentirmi, provare dolore e un sano proponimento per confessarmi e avere la coscienza apposto. Devo porre rimedio, nelle mie possibilità e, nell’esempio, restituire i soldi rubati. La pena inflitta dal sacerdote non è un godimento di un Dio sadico e malvagio, ma è la giusta punizione di una colpa commessa, atta a correggere le nostre tendenze peccaminose (le chiacchiere servono a poco) e a scontare la pena che abbiamo meritato peccando. Lo so che parlare di pena e di castigo è fuori moda. Ma la dottrina della Chiesa è eterna e come tale se ne frega (altamente) delle mode dei preti. Un’ultima, tra le numerose che si potrebbero fare: ogni peccato commesso non è una semplice questione che riguarda me e Dio, ma ferisce tutto il corpo ecclesiale. Come mostra il Vangelo (così come per ogni parte del Sacramento della Confessione), il fatto che uno dei due figli decida di andarsene e prendere ciò che gli spetta, coinvolge anche l’altro figlio, che si ritrova pure lui, pur non avendolo chiesto, con la sua parte d’eredità. Se apparentemente può sembrare una gran bella cosa, è comunque chiaro come ogni atto che facciamo ha delle ripercussioni su tutti gli altri. Nel male, nel peccato, ma anche e soprattutto nel bene con ogni opera buona che compiamo. E qui, mi permetto un’ultima digressione. Il bene non ha bisogno di essere mostrato, decantato e avere necessariamente una valenza sociale, altrimenti sarebbe filantropia. Mi permetto di dire queste cose perché troppo spesso per “fare il bene” intendiamo solo ciò che sana il corpo, la carne, la materialità. Quindi fare elemosina, curare gli ammalati, eccetera. Tutte cose sane, sante e cattoliche. Ma c’è un bene per certi aspetti misterioso, nascosto, senza il quale anche quello evidente diventa sterile. Ed è il bene della preghiera, della buona e sana predicazione. Che Dio ce ne doni sempre in abbondanza!

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