giovedì 21 febbraio 2013

La seconda Domenica di Quaresima ci porta ad ascoltare il Vangelo della Trasfigurazione di Nostro Signore Gesù Cristo. Come da ogni Vangelo, possono essere tante le riflessioni, le analisi, gli spunti ricavabili da quel semplice, e spesso scarno, testo. A me ne vengono in mente due politicamente scorrette, forse scorrettissime, visto che vanno a intaccare due “dogmi” della Chiesa di oggi la quale, da quando ha scelto di rinunciare ai Dogmi veri, quelli affidateLe dal Suo Divin Fondatore, si aggrappa e cerca stabilità su certezze umane e mondane. Con tutte le conseguenze annesse. Leggiamo, per comodità, il Vangelo di Luca: 

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!». Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto. 
[Lc 9,28-36] 

La prima cosa che colpisce è che Gesù, nella Chiesa di oggi, verrebbe tacciato di tradizionalismo e probabilmente anche messo all’angolo, fuori dai posti importanti. Il motivo? È poco collegiale. Questa, nella Chiesa post vaticanosecondo, è una colpa imperdonabile. Tutti devono fare tutto, non ci devono essere preferenze, distinzioni, separazioni. Il governo della Chiesa, quindi, deve essere collegiale, di tutti i vescovi, successori dei Dodici. Eppure, se ci atteniamo a quanto scrivono i Vangeli, Gesù, su dodici apostoli che aveva scelto, sul monte ne porta solo tre. Un quarto di essi. Meno della metà. Che disgraziato antidemocratico, antiecumenico, anticonciliare che fu Gesù! Tra l’altro, di quei tre, guarda caso, c’è ne è uno che c’è sempre nelle occasioni fondamentali del ministero di Gesù. Chi è? Pietro. Noi moderni, invece, vorremmo che ci fossero tutti tranne che lui. Si guardi il trattamento che preti, vescovi e cardinali, e sul loro esempio laici, riversano al Successore di San Pietro. Indifferenza e disubbidienza sono le monete più coniate tra i sacri palazzi e nelle chiese cattoliche. Su questa considerazione se ne fonda un’altra: Gesù si mostra per quello che è realmente solo a tre dei suoi apostoli. Solo essi, Pietro, Giovanni e Giacomo, fanno realmente esperienza di Gesù Cristo per quello che è. Tutti gli altri otto apostoli, e nemmeno da subito, saranno costretti a fidarsi di quanto gli racconteranno Pietro, Giovanni e Giacomo. Solo loro tre fanno quest’esperienza mistica. Tutti gli altri, per credere, dovranno avere fede. Non tanto di Gesù, quanto di quei tre prediletti che hanno avuto modo di assistere alla trasfigurazione. Perché allora, mi domando, nella catechesi, nella pastorale, nella liturgia, oggi si centra tutto su questo ‘fare esperienza di Gesù risorto’ (e tutte le altre affermazioni simili)? Domanda legittima che non troverà risposta. Rimane la perplessità della santità, della sanità e dell’utilità di tale fondamento pastorale (e inevitabilmente dottrinale) che questa scelta comporta. La fede è, per dirla col Catechismo di san Pio X, “quella virtù soprannaturale per cui crediamo, sull'autorità di Dio, ciò che Egli ha rivelato e ci propone a credere per mezzo della Chiesa.” [§ 232] Di esperienza non se ne parla. L’esperienza di Dio la fanno i mistici. Non tutti siamo chiamati a queste rivelazioni così intime; anzi la stragrande maggioranza dei cristiani non hanno questi privilegi (con le annesse responsabilità). Come un quarto degli apostoli vedono Gesù trasfigurato, pochissimi dei cristiani hanno esperienza di Dio. Continuare a insistere su questo tipo di predicazione, conduce, mi sembra, a confondere qualsiasi emotività, qualsiasi sentimentalismo (anche il più misero) con un’esperienza di fede. La fede, svincolata da una retta dottrina (che oggi, è evidente, non c’è) può essere qualsiasi cosa. L’esperienza che l’emozione di un gol di Totti, una canzone di Tiziano Ferro, l’attrazione per una donna, esercitano su una persona, non possono essere scambiate con la virtù della fede e con il Cattolicesimo. A meno di non pretendere che Gesù Cristo si metta a fare giocate meravigliose con il pallone, calcare i palchi degli stadi cantando L’amore è una cosa semplice, stupire i fedeli con un nuovo taglio di capelli o un particolare abbigliamento attraente. Per essere più chiari: “Il secondo errore della pedagogia neoterica è che l’insegnamento abbia per scopo diretto di produrre un’esperienza, che la via sia parimenti quella dell’esperienza e che la conoscenza astratta dal vissuto sia, come dicono, puro nozionismo. Ora il fine proprio e formale dell’insegnamento, non esclusa la catechesi, non è di produrre un’esperienza, ma una cognizione. Il discepolo vien tratto dal maestro a svolgere cognizione da cognizione mediante un processo dialettico di presentazione di idee. Così della catechesi il fine non è immediate un incontro esistenziale e sperimentale con la persona del Cristo (qui oltre tutto si trapassa alla mistica), bensì la conoscenza delle verità rivelate e dei loro preamboli. L’ascendenza modernistica di questa pedagogia non può sfuggire a chi sa che il principio filosofico del modernismo era il sentimento che risolve in sé ogni valore e che primeggia sopra i valori teoretici riguardati come l’astratto di cui l’esperienza è il concreto.” [R. Amerio – Iota unum]

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