domenica 7 ottobre 2012

L’Anno della Fede è ormai alle porte. Giovedi saranno ufficialmente i cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II. Questo Concilio viene spesso additato, da una parte, come causa di tanti mali per la Chiesa; da opposta parte come beneficio immenso, come mai se n’era visto prima. Soprattutto i pii e devoti sostenitori, credono, imboccando alle menzogne loro proposte, che con il Vaticano II sia cambiata la Chiesa. Che in Essa sia entrato il nuovo. Nuova evangelizzazione, nuova estetica, nuova chiesa, nuova morale, nuova teologia, nuova dogmatica (cioè nessuna dogmatica), nuova pastorale, nuova Chiesa, nuova concezione di questo, quello e quell’altro. Tutto nuovo. Con la conseguenza che il vecchio è stato gettato nel gabinetto. Questo, sia chiaro, non è stato voluto dal Concilio, ma da qualche abile criminale, capace di deviare le sorti dell’Assise. Probabilmente qualche responsabilità nei modi in cui il Concilio si è svolto, ci sono, ma il Concilio stesso non ha modificato (non avrebbe potuto, pur eventualmente volendolo) quella che è la Fede della Chiesa. Oltretutto non era quella la sua missione. Il Beato Giovanni XXIII così si espresse sui fini del Concilio Vaticano II: «Quel che più di tutto interessa il Concilio è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace». Custodire. Conservare. È stato fatto? Possiamo riconoscere serenamente di no. Possiamo riconoscere serenamente che in larga parte (forse non in tutta) il Concilio è stato tradito e strumentalizzato da parte di abili novatori. Proprio perché molte anomalie, molte novità (onestamente troppe!), circolano all’interno della Chiesa cattolica, mi preme riportare due note per quel che riguarda la fede. Una a firma Joseph Ratzinger; l’altra a nome padre Giovanni Cavalcoli. 

“Ne consegue però anche che la fede, per la sua stessa originaria essenza, non è affatto un cieco affastellamento di paradossi incomprensibili. E inoltre che è sbagliato addurre a pretesto il mistero, come in realtà non di rado avviene, per tro­vare una scusa alla mancanza di comprensione. Quando la teo­logia va a impelagarsi in un mare di assurdità, ostinandosi non solo a scusarle, ma magari addirittura a canonizzarle richiaman­dosi al mistero, ci troviamo dinanzi a un abuso della vera idea di 'mistero', il cui senso non è certo la distruzione dell'intelletto, bensì di rendere possibile la fede in quanto comprendere. In altri termini, la fede non è certamente un sapere nel senso della scienza del fattibile e secondo la sua forma di calcolabilità. Non lo potrà mai diventare e finirebbe solo per rendersi ridicola, qualora tentasse di proporsi in queste forme. Ma è vero anche l'inverso: il pragmatismo calcolatore è per sua stessa essenza limitato al fenomenico e al funzionale, sicché non può assoluta­mente rappresentare la via per trovare la verità, alla quale ha ri­nunciato in partenza in base alla sua stessa impostazione meto­dica. La forma in cui l'uomo è tenuto ad affrontare la verità del­l'essere non è il sapere, bensì il comprendere: comprendere il senso al quale si è fiduciosamente abbandonato. Dovremo poi logicamente aggiungere che solo nello 'star-saldi' si apre la via al 'comprendere', non prescindendo da esso. Uno non si attua senza l'altro, perché comprendere significa afferrare e concepire proprio in quanto senso ciò che si è accettato come fondamento. Penso sia precisamente questo l'esatto significato dell'idea che ci facciamo del comprendere: che noi impariamo a cogliere il fondamento su cui ci siamo posti come senso e verità; che impa­riamo a riconoscere che il fondamento rappresenta il senso.” 
[J. Ratzinger – Introduzione al Cristianesimo] 

“La fede ha un’essenziale dimensione concettuale. Essa comporta l’accoglienza delle formule dogmatiche proposte dalla Chiesa. Ha un carattere squisitamente dottrinale: è la dottrina di Cristo. Chi nega o sottovaluta o rende mutevole o relativizza o soggettivizza questo aspetto dottrinale, qualche che sia il pretesto sotto il quale si nasconde, distrugge la fede.” 
[padre G. Cavalcoli – Il Timone n.116]

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