lunedì 9 luglio 2012

La liturgia romana nella sua continuità
don Enrico Finotti



“Incrinare l’adesione e contestare la legittimità del Concilio Vaticano II è incrinare l’autorità del Concilio Tridentino e di tutti i Concili ecumenici. Contestare l’autorità di Paolo VI e di Giovanni Paolo II è contestare l’autorità di Benedetto XVI e di tutti i Sommi Pontefici.” Questa la tesi di fondo di don Enrico Finotti nel suo La liturgia romana nella sua continuità. Tesi importante, sulla quale o tutto si tiene o tutto crolla. Certo non tutto quello che è uscito dal Vaticano II è quello che vediamo nelle nostre chiese (visto che parliamo di liturgia), né tantomeno tutto quello che è uscito dal Vaticano II è irriformabile, assoluto, verità di fede, buono. Il volume di don Enrico Finotti, però, ha l’importante e prezioso merito di mostrare come tra le due forme del rito romano (la Messa di san Pio V e quella di Paolo VI, la Messa antica e quella moderna, tanto per intenderci) non ci sia rottura ma continuità. Questo si evince già dal titolo, ma si rimane stupiti dalla chiarezza e dall’evidenza che don Finotti porta a sostegno della sua tesi. Quello della liturgia è un temo scottante, sul quale l’unità dei cattolici viene messa in discussione. Tra i difensori duri e puri del rito di san Pio V e i difensori duri e puri del rito di Paolo VI e i sostenitori dell’innovazione continua dei riti stanno quei semplici fedeli, magari non addentro alle questioni liturgiche ed ecclesiali, che vivono la loro fede alimentandola nella liturgia e che ogni tanto vedono cambiare le cose. Le domande sorgono spontanee. Perché questa novità? Che senso ha? Perché ora è così mentre prima no? Se poi si studiano un po’ le carte le difficoltà più che diminuire aumentano. Le crisi di fede più che placarsi dilatano e lacerano. Il primo punto da mettere in chiaro è che la liturgia praticata nelle parrocchie spesso e volentieri non è né quella di san Pio V né quella di Paolo VI. Magari è quella di qualche fondatore di qualche movimento laicale, oppure è quella della creatività di qualche sacerdote. In questo panorama la cattolicità è messa tra parentesi. Il fine di costoro, dei manipolatori arbitrari della liturgia, è quella di avvicinare Dio all’uomo. Intento magari anche lodevole, peccato che abbassano Dio piuttosto che elevare l’uomo. Oltretutto dimenticano che fine primo di ogni liturgia che voglia dirsi cattolica è quello di rendere lode a Dio. Nelle liturgie delle nostre parrocchie si loda l’uomo, la comunità, il fondatore del movimento, il prete. Chiunque purché non Dio Padre. Il problema, ovviamente, non è da poco. Di fronte alla palese frattura (perché la frattura c’è), don Enrico Finotti più che ricomporre lo strappo, mostra che esso non è ai vertici, ma alla base. Lo strappo è figlio della disobbedienza dei preti, non del tradimento del Papa. Procedendo per questioni difficili e spinose, don Enrico Finotti, riesce a mostrare la continuità tra le due forme del rito. Al lettore l’ultima parola. Tenendo sempre in considerazione le parole d’apertura.

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