mercoledì 5 ottobre 2011




“Chi ha detto che si viene al mondo per essere felici?” Domanda agghiacciante quella posta nel film “8 ½” di Fellini. Domanda che posta oggi, in un mondo in cui s’istituiscono ministeri per la felicità, considerata essa come un diritto, suona alquanto bizzarra e provocatoria. Nonostante questo, anzi proprio per questo, riprendo il discorso sulla felicità iniziato qualche giorno fa e che ha suscitato qualche domanda. Premetto che sono mie semplici considerazioni che, in questo caso, non si vantano di nessuna autorità, né di nessuna infallibilità. Provo a spingere oltre la mia riflessione e provo a chiarire alcuni punti su questo importante e pressante discorso. Direi che è opportuno iniziare ponendoci la giusta domanda: che cos’è la felicità? È la soddisfazione dei piaceri? Se ho sete, bevo, e sono felice? Se ho voglia di qualcosa, lo ottengo e sono felice? Mi sembra un po’ riduttivo e quantomeno misero. Oltretutto, riallacciandomi a quanto detto in precedenza, la felicità è un dono, si può ricevere, non ottenere. Anche così, essa risponderebbe all’appagamento di una nostra necessità? Ho bisogno di mangiare, qualcuno mi dà del cibo, quindi sono felice? Ho bisogno di affetto, qualcuno mi coccola, allora sono felice? Anche qui qualche stortura c’è. Ed è quella di ridurre la felicità ad un nostro bisogno, ad un nostro obiettivo, ad una nostra esigenza. Che poi, rimanendo in questi termini, qual è l’obiettivo dell’uomo? Essere felice come il penitente del video sembra volersi rimproverare? No. Lo scopo della vita dell’uomo è la salvezza. Quindi, eventualmente, la felicità sta lì. Essa però la otteniamo solo, eventualmente, con la morte. Il problema è solo rimandato. Nella vita etera si può essere felici. Il Catechismo della Chiesa cattolica ne parla ampiamente, identificando il paradiso e la vita eterna con la felicità piena. “Non ti prometto di renderti felice in questo mondo, ma nell'altro” questo disse la Madonna apparendo a santa Bernadette Soubirous (la giovane di Lourdes). La felicità non sembra essere una questione peculiare di questo mondo. Mi spingo un po’ oltre. Non sarà che la felicità, su questa terra, non è un diritto, né tantomeno una cartina di tornasole per stabilire se una vita è riuscita o meno? Non abbiamo ancora però formulato una risposta soddisfacente: che cos’è la felicità? San Pietro dice che: “Essi stimano felicità il piacere d'un giorno; sono tutta sporcizia e vergogna; si dilettano dei loro inganni mentre fan festa con voi” [1Pt 2,13] La felicità dunque, a detta del Principe degli Apostoli, non è nei piaceri di ogni giorno. Non possiamo, né dobbiamo, dargli torto. Perciò è qualcosa d’altro. Il Catechismo di San Pio X afferma in merito: “Quelli che seguono le massime del mondo non possono essere veramente felici, perchè non cercano Dio, loro Signore e loro vera felicità; e così non hanno la pace della coscienza, e camminano verso la perdizione.” [Catechismo San Pio X, §266] Ed è in linea con quanto scrive san Giacomo nella sua lettera: “Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla.”[Giac 1,25]. Qui però subentra un elemento nuovo: la fedeltà alla legge. La messa in pratica di alcuni precetti. Ovvio che non si sta parlando di una mera, meccanica, realizzazione di comandi. C’è però da considerare quanto dice la Scrittura. E cioè che la felicità non si trovi nei piaceri del mondo, ma nella realizzazione della Legge. Ritorna prepotente, come sempre, il legame con la verità. Direi, oltretutto, che di fondamentale nel legame con la Legge e la verità è il trasferimento dell’oggetto centrale della riflessione sulla felicità. Non è l’”io”, ma il “tu”. Provo a spiegarlo con questa breve metafora. La felicità è come l’onda del mare. Alcune raggiungono la riva, bagnano la terra e divertono i bambini. Altre cullano e guidano le navi. Altre ancora non hanno nessuna utilità apparente. Se non quella di creare altre onde (magari proprio quelle che arriveranno a riva, o altro) o di mantenere vivo il sistema del mare. Così la felicità dell’uomo. C’è quella evidente dei sorrisi donati, dei baci e degli abbracci ricevuti. C’è però anche una felicità nascosta, magari dietro l’egoismo delle lacrime, per cui si gioisce per la gioia altrui. Oppure, come le onde nascoste e “inutili”, c’è una gioia che sembra sterile, ma che, invece, permette ad altri di essere felici. È una gioia che non si esprime in sorrisi ed entusiasmi, ma si nasconde nella passione di scelte atte a rendere possibile la felicità altrui. È un tipo di felicità che definirei sublimata. O che deve raggiungere tale sublimazione. Il voler essere felici perché altri ci rendono felici, perché ci danno qualcosa è un tipo di felicità. Magari nemmeno delle migliori. Essere felice perché quello che fai, o non fai, rende felice l’altro è un tipo di felicità più sottile, più difficile, ma forse proprio per questo più essenziale, duratura e perfetta. Una felicità che non si realizza nell’entusiasmo e che, specie all’inizio, cozza contro il nostro egoismo di voler essere i destinatari o i creatori, e non i tramiti della felicità. Abbiamo spesso la presunzione di essere gli artefici della gioia (nostra, come l’esempio del poker nella precedente riflessione) o altrui (come chi vorrebbe, magari anche con il migliore delle intenzioni, essere chi è capace di rendere felice l’altra persona, magari quella che ama). Oppure, peggio, siamo schiavi dell’idea che la felicità sia solo qualcosa che dobbiamo ricevere, ottenere, raggiungere. Da soli o attraverso gli altri poco importa. Ma è uno stato che deve riguardare noi, le nostre sensazioni, i nostri istinti, le nostre passioni. C’è anche una felicità disinteressata, che si disinteressa di se stessi, che si rende conto di non essere né fonte né fine di niente, ma solo strumento. Il centro diventa l’altro. Tutto questo può essere possibile se si è liberi e non schiavi di se stessi. Egoisti. L’egoismo porta alla tristezza, alla spossatezza e alla difficoltà di accettare la gioia di rendere l’altro felice. Poi quando questa felicità matura, ed è l’esempio dei santi, permette di sopportare ogni sofferenza, di vivere felici anche nel pieno delle tribolazioni, nel pieno dell’angoscia e della desolazione. Perché se questa è semina per la felicità altrui e se la felicità altrui è l’obiettivo primario, allora anche la tribolazione, l’angoscia e la desolazione divengono motivi di gioia. Piena.

2 commenti:

  1. il tuo ragionamento e le tue riflessioni sono bellissime...mi chiedo però(come ho gia fatto in passato) se i tuoi pensieri non rischino di cadere nell'autoreferenzialità. Detto banalmente, chi ti dice che con la tua "felicità nascosta, magari dietro l’egoismo delle lacrime, per cui si gioisce per la gioia altrui" vi è davvero la gioia altrui??? L'autoreferenzialità porta alla convinzione che tale tipo di felicità porta alla gioia degli altri..a pensare che "quello che fai, o non fai, rende felice l’altro". Non rischia anche questo pensiero di essere egoistico??pensiamo di sublimare la nostra felicità per il bene dell'altro e poi quali sono i frutti??spesso neanche lo sappiamo, perchè non sappiamo veramente come sta l'altro...neanche glielo chiediamo convinti che con il nostro fare (o non fare) l'altro stia bene...magari lo vediamo pure sorridere ogni tanto e allora ci confermiamo nelle nostre convinzioni.
    Trovo che invece la bi-referenzialità sia la base dei rapporti umani. Può anche essere che, come affermavi in altri post, la felicità non debba necessariamente essere un destino comune a quelle persone, ma essere convinti che si fa il bene dell'altro mettendosi da parte, senza che l'altro te lo abbia chiesto, mi fa sorgere qualche domanda.
    Nella convinzione che i tuoi siano sentimenti di bene e nella certezza che sia sempre guidato dalla volontà di fare degli atti d'amore nei confronti di chi vuoi bene, ti invito ad aprire le tue convinzioni all'altro, nella speranza di trovare anche tu una felicità...piena.

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  2. Sono dell'idea che nemmeno se l'altro ti dice "a me fa star bene questo", necessariamente il suo bene sia proprio quello che ti chiede.

    Il rischio che tu dici è vero, reale, drammaticamente probabile. Non per questo però il cercare primariamente la felicità, piuttosto che la propria, siccome si rischia di essere autoreferenziali, è sbagliato. Piuttosto si cerchi di non cadere in questa autorefenzialità di cui parli te.

    La vita non si esaurisce in quello che ci diciamo e in quello che chiediamo. C'è dell'altro. Ognuno prende le proprie decisioni, corre i propri rischi. Magari sbagliando. Credo che nessuno (io sicuramente no) abbia la certezza di fare sempre bene quello che fa. Tantomeno di fare del bene con le proprie scelte. Si prendono decisioni, si rischia. Spesso, troppo spesso, si sbaglia. Ma almeno ci si prova. E quello che dico io è che ci si deve provare puntando all'altro, non a sè stessi.

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