giovedì 13 ottobre 2011

Mt 22, 15-21. XXIX Domenica del Tempo Ordinario, anno A. Il Vangelo che ascolteremo Domenica prossima in tutte le chiese cattoliche. In esso ascolteremo la grande lezione di Gesù Cristo: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio» Meditando su questo passo mi domandavo: “cos’è di Cesare e cos’è di Dio?”. Molti probabilmente si rifaranno alla diatriba tra Chiesa e Stato, sulla laicità di quest’ultimo e sulle ingerenze (in Italia dipende dalla convenienza) della Cattolica, negli affari dello Stato. Eppure, aldilà di questa pur importante riflessione, che mostra già da subito come sia lo stesso Gesù Cristo (non Garibaldi, Cavour, Napoleone o Enrico VIII) a distinguere le due sfere. Il problema nella storia si è posto quando i Garibaldi, i Cavour, i Napoleone e gli Enrico VIII di turno si sono beatamente infischiati delle esigenze della povera gente ed ecco che essa si è rivolta a quell’Autorità che regge il mondo da almeno duemila anni: il Papa, il Successore di Pietro. Ecco allora che Egli si è ritrovato ad amministrare le cose civili e, con onestà intellettuale, Gli va riconosciuto il merito di averlo fatto spesso e volentieri meglio di tanti altri. L’esempio diretto della storia della città di Roma, sempre intimamente innamorata e grata al Papa, ne è una delle prove evidenti. Detto questo, le mie riflessioni vertono su ciò che è proprio di Dio e ciò che è proprio di Cesare. Da queste poche, ma intense, parole di Cristo, si evince che ci sono delle cose pertinenti a Cesare e delle cose che sono pertinenti a Dio. E viene da pensare che queste cose non siano interscambiabili né sovrapponibili. C’è quindi da capire bene ciò che è sacro e ciò che è profano. A scanso di equivoci, per i puritani e i moralisti di turno, va detto che Gesù non condanna Cesare. Non dice “date tutto a Dio”. Nel sano realismo cristiano, virtù latitante da decenni, l’uomo vive nel mondo e in esso non è un estraneo. Seppur cittadino del cielo, egli ha la sua dimora sulla terra (cfr. A Diogneto, V, 9). Con essa, quindi, deve relazionarsi. Rimane che ci sono cose specifiche di Dio e altre no. Non bisogna cadere nell’errore di confondere i due piani (nell’isteria del relativismo), né di pensare che non esistano differenze (nell’isteria dell’indifferentismo). Se questo era evidente fino a qualche secolo fa, oggi non lo è più. Frutto (o causa?) della crisi della fede (che è la base della crisi della Chiesa) è anche questo sincretismo tra sacro e profano. Elementi specificatamente mondani sono inseriti negli spazi e nei tempi sacri e, inevitabilmente, elementi sacri sono riversati, tradendoli, nel profano. Ciò che positivisti e intellettuali non hanno mai capito, è che l’uomo ha una dimensione religiosa. Non si può prescindere da essa. Se viene meno non è che essa sparisce, ma si modifica e si riversa su altri aspetti. Non è che le società cosiddette laiche e secolarizzate siano areligiose; anzi, esse sono più dogmatiche e devote di quelle religiose. Il problema sta nel fatto che queste società divinizzano cose e persone che non sono divine. Tanto per fare un esempio (imparato dal sempre ottimo Vittorio Messori, cui sarò sempre grato), le società moderne hanno trasferito il loro credo in un Dio (non necessariamente cattolico), nel dio dello Stato. Esso è divenuto il nuovo idolo da adorare e venerare, con festività da celebrare, con i suoi sacerdoti, i suoi ministri, i suoi luoghi e i suoi tempi sacri. L’allora cardinal Ratzinger scriveva che “Quando l'uomo si sottrae a Dio gli piombano addosso gli déi“. Non si elimina quindi l’aspetto trascendente dell’uomo, piuttosto lo si sostituisce con un surrogato, nemmeno dei migliori. Questa distinzione tra sacro e profano, se era netta e chiara fino a qualche secolo fa, oggi non lo è più. Infatti, assistiamo alla sacralizzazione del profano e alla profanazione del sacro. In pochi termini: un’apostasia generale, così come l’ha annunciata dalla Madonna a Fatima e rimasta molto spesso inascoltata o derisa dai dotti del mondo, e della Chiesa. Viviamo, infatti, una fase della storia della Chiesa in cui non è più definita e, soprattutto, vissuta, la differenza tra sacro e profano, tra quelle cose di Dio e quelle cose di Cesare di cui parla il Vangelo. Ci si può rendere conto tranquillamente di ciò. Quali sono (e non sarebbero) gli spazi sacri? Tanto per citarne uno: la chiesa, il luogo di culto. Ebbene già da lì non si ha più la percezione che quello è uno spazio sacro. Sia perché le funzioni a esso connesse (la liturgia) spesso e volentieri viene celebrata in qualsiasi posto tranne in quello che le spetta: appunto lo spazio sacro, con suppellettili sacre. Le chiese moderne potrebbero essere perfettamente luoghi di culto di altre confessioni, potrebbero essere tranquillamente spazi riservati ad attività culturali o musicali, se non peggio, sociali. I caratteri specifici sono andati persi. E mi domando se sarà mai possibile recuperarli e se sì, a quale prezzo. Ancora: quali sono i tempi sacri? Potremmo rispondere il tempo liturgico. Anche qui, la distinzione ormai è persa. A malapena ci si ricorda quando è Natale perché i media ci rimbambiscono di Babbo Natale, certamente non si sa quando è Pasqua (e, soprattutto, cosa si celebra). La cosa più drammatica è il resto. Non si sa quando inizia la Quaresima, non si sa che la Domenica è giorno riservato a Dio e come tale esentato da attività mondane; non si sa (o si è permesso) che il venerdì è giorno dove non si mangia carne, eccetera. Ancora: quali sono le cose sacre? Le suppellettili per la liturgia, i libri sacri, ecc. Sulla liturgia mi trattengo, ma basta girare un po’ per l’Urbe e per l’Orbe, per accorgersi che si celebra con calici e patene sicuramente non d’oro (mi si risparmi la morale sulla povertà della Chiesa), con abiti civili e non sacri (oltre al fatto che il prete si traveste da laico), si usano iPhone e iPad piuttosto che il Breviario, eccetera. La lista potrebbe continuare, ma lascio ad ognuno questo esercizio. Non sarà difficile trovare elementi mondani nelle chiese (chitarre, canzoni da RadioItalia, lingue volgari, manifesti, bandiere della pace, elementi non cristiani, ecc), né trovare elementi sacri nel mondo (le processioni per comprare il nuovo tablet, le adorazioni al nuovo idolo della tv, le liturgie laiche, ecc). Il difficile, semmai, è distinguere l’errore. Capire, in sostanza, se una cosa è sacra e stona in un ambiente profano e, viceversa, se una cosa è profana e chiede vendetta agli occhi di Dio in un ambiente sacro. Se non ci riuscite, la colpa non è vostra, ma della mentalità ecclesiale che ha partorito queste atrocità e questa confusione. Nella giustificazione che la Chiesa deve aprirsi al mondo, aggiornarsi alle mode del momento, cambiare la sua facciata per rendersi più riconoscibile e non so quali altri slogan ridicoli, ricordo quanto solennemente affermato dal V Concilio Lateranense, nel lontano 1512: “È necessario che gli uomini si adattino alle cose sacre, e non le cose sacre agli uomini”. Se qualcuno storcerà il naso e mi rimprovererà di anacronismo, perché cito un Concilio di esattamente cinque secoli fa e non quello di cinquant’anni fa, si metta l’anima in pace e si ricordi che la Chiesa è una e immutabile. Che la Sua Dottrina è la stessa ieri, oggi e domani. Se questo non è più così, la colpa e l’errore non sono di chi cinque secoli fa si è pronunciato in un modo, ma di chi cinque secoli dopo, si pronuncia in un altro.

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