domenica 22 agosto 2010

Mentre volava sopra una spiaggia nel Golfo un gabbiano vide un topo. Planò dal cielo e domandò al roditore: “Dove sono le tue ali?” Poiché ogni animale parla una propria lingua, il topo non comprese le parole del gabbiano, tuttavia notò le due “cose” strane e grandi che gli uscivano dal corpo. ‘Soffrirà di qualche malattia‘, pensò il roditore. Il gabbiano si accorse che il topo stava fissando le sue ali. ‘Poverino. Sarà stato attaccato dai mostri che lo hanno reso sordo egli hanno rubato le ali.‘ Impietosito, lo afferrò con il becco e lo portò a passeggio nei cieli. ‘Per lo meno potrà placare la sua nostalgia‘ pensò, mentre volavano. Poi, con grande delicatezza, lo depose sul suolo. Per alcuni mesi, il topo fu un, una creatura profondamente infelice: aveva conosciuto l’alto dei cieli, aveva visto un mondo vasto e bello. Ma, con il passare del tempo, finì per riabituarsi ad essere un topo, e pensò che il miracolo che aveva illuminato la sua vita era soltanto un sogno. Così P. Coelho nel suo nuovo romanzo, edito da Bompiani, Il vincitore è solo. Questa è la condizione di ognuno di noi, anche la mia, la condizione di essere umano. Nella Babele della comunicazione parliamo, anche tra simili, linguaggi differenti. Vogliamo tutti la stessa cosa, ma non riusciamo ad esprimerci e a farci capire. Quella che è la nostra natura, per qualcuno è una malattia. Quella che è la personalità altrui è per noi un anomalia. Eppure tutti siamo creati ad immagine e somiglianza di Dio [Gn 1,26], eppure nel prossimo non ci riconosciamo. Ecco allora l’amore, qualcuno che si interessa di noi, si fa carico delle nostre debolezze. Attraverso le sue caratteristiche, il suo essere, trasforma noi. Un Dio che si fa uomo, si fa carne per rendere quella carne e quegli uomini, dio. Per permettergli di tornare laddove il male, conseguenza della libertà, all’inizio del mondo lo aveva allontanato. Qui sta la nostra storia, la nostra povertà e la nostra ricchezza. Povertà di uomini schiacciati dal peccato e la ricchezza di uomini sollevati dalla grazie. In questa storiella che abbiamo riportato c’è una grande e una piccola storia. Quella grande del nostro destino, della nostra esistenza di uomini. E quella piccola della nostra piccola vita. Contrassegnata a volte da quel mistero grande e generoso di un uomo, o una donna, che si china su di noi che miseramente strisciamo a terra in cerca di consolazione. Ecco che lui (lei) ci conduce lassù, dove mai avremmo sognato di poter arrivare. Lì dove le nostre capacità, il nostro essere, mai ci può condurre. Ci possiamo arrivare solo con un altro. Con un gesto libero, il planare del gabbiano, che senza la sua volontà mai avrebbe né potuto sentire le nostre suppliche, né potuto comprenderle. Questo è l’amore. Fare all’altro quello di cui ha bisogno. Che non sa esprimerlo e chiederlo. Comprendere anche un linguaggio sconosciuto. Con la grazia di Dio questo amore, anche quello piccolo nelle nostre vite, può diventare eterno. Per evitarci quella nostalgia di infinito che la fine di un amore porta con sé. Quella stessa nostalgia che ci fa dire “Dio non esiste” o “l’amore è una cosa da donnicciole e bambini”. Tutti noi sappiamo che esistono. Dio e l’amore. Che poi l’uno è l’altro [1Gv 4,16]. La libertà di salire sopra le cime di ogni monte e oltre, permette allo stesso tempo la libertà di essere scaraventati a terra. La grazia di Dio non ci abbandona e sempre ci accompagna. Quella dell’uomo non sempre. Auguriamoci di trovare, ognuno nella propria vita, un gabbiano. Che non ci lasci soli. E ci faccia essere gabbiani, pur rimanendo topi. Per sempre.

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