Un sacerdote
mi raccontava di come la riforma
liturgica degli anni Cinquanta abbia unito nella Domenica delle Palme il
racconto dell’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme con quello della Sua
Passione. Il tutto, ovviamente, in chiave ecumenica. Con il risultato, ho
subito pensato, che gli eretici sono rimasti eretici di fronte all’ennesimo
gesto ecumenico e i cattolici hanno perso un altro po’ di quello che li
contraddistingueva come tali. Ma tant’è. Nei vangeli proclamati in questa
solennità possiamo scorgere la sintesi di tutto il Cristianesimo. L’esaltazione
degli uomini di trovare in Gesù la soluzione dei loro problemi (l’ingresso a
Gerusalemme), il fallimento di ogni umana aspettativa (la Passione), lo
scoramento e l’abbandono di ogni convincimento nei confronti di Gesù e di
quello che Egli ha predicato e compiuto (la morte). Perché il problema sta
tutto lì, nella verità. Se che Gesù Cristo si sia incarnato, abbia patito, sia
morto e risorto per la mia salvezza è vero è un conto; altrimenti tutto perde
senso. Ma se è vero, è vero anche se io non lo sperimento, anche se la mia vita
è un continuo calvario. Anche se all’interno stesso della Chiesa, di coloro che
dovrebbero credere in Gesù, ci sono più Giuda che altri. La fede in Dio non può
dipendere da quanto mi faccia comodo, da quanto risponda alle mie necessità.
Almeno non a quelle mondane e terrene. Se Dio è Dio lo è anche se la mia
esistenza – per motivi a me più o meno noti – è destinata a un continuo
fallimento e una continua sofferenza. Tanto più se il fallimento e la
sofferenza sono incardinati sulla via del calvario e conducono senza mezzi
termini alla morte. E alla morte più infamante. Certo c’è la Resurrezione. Sono
cattolico, ci credo. Ma quanti perdono la Resurrezione perché allontanano il
calice della prova, della miseria, del tradimento, dell’abbandono, della
flagellazione, dello scherno e della caduta? Quanti intontiti da una fede pop,
2.0 o come volete chiamarla, per cui la sofferenza e la passione sono da
eliminare, oltre che essere eretici non possono vivere la Resurrezione? Credere
e sperare nella Resurrezione non è tanto credere e sperare che le nostre croci prima
o poi finiranno; non è tanto credere e sperare che i nostri problemi prima o
poi si risolveranno. Credere e sperare nella Resurrezione è essere certi
(credere) e sperare (desiderare e
aspettare la vita eterna che Dio ha promesso ai suoi servi, e gli aiuti
necessari per ottenerla[1])
che questa è a noi promessa, quindi possibile.
La più grande Resurrezione è
quella della carne, quella che riguarda ciascuno di noi dopo la morte e il
giudizio. La seconda grande resurrezione è quella che riguarda la conservazione
della fede di fronte a tutte le prove che ogni cattolico vive – specie in
questi tempi tremendi – così come le ha patite Gesù. Invochiamo allora la
misericordia di Dio che ci aiuti a conservare la fede in questi tempi
disastrati dove si pensa di salvarsi senza di essa (presunzione) o si pensa che
non sia possibile (se non necessario) salvarsi (disperazione). Preghiamo di
avere nella nostra vita qualche Cireneo pronto ad aiutarci a portare le nostre
croci. Ma che non ce le tolga. Perché solo portandola questa Croce, così
scandalosa più per noi cattolici che per gli altri, possiamo meritare la
Resurrezione.
[1]
Catechismo San Pio X, §462
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