giovedì 2 maggio 2013

Ascoltavo oggi un ragazzo lamentare, in parte anche giustamente, la banalizzazione e la distrazione che l’innovazione delle nuove macchinette fotografiche ha portato nel suo lavoro di fotografo. Faceva notare come le nuove macchinette digitali, la loro facilità d’utilizzo e velocità di esecuzione e sviluppo, abbiano reso superflue molte pratiche, quali lo sviluppo stesso della foto, ma soprattutto la preparazione e l’attenzione ad essa dipendenti, che prima erano necessarie. Prima fare una foto aveva un costo (fisico di materiale, ma anche temporale), oggi non è più così (basta un click, un tasto e il file è pronto). Quel costo determinava l’attenzione e la cura con cui una fotografia veniva scattata. L’innovazione ha sì portato benefici, ma anche, e forse soprattutto, creato dei danni, anche culturali, cui forse troppo spesso si tace o, peggio, non si riflette attentamente. Una delle conseguenze della democraticizzazione della fotografia è il suo ormai quasi banale utilizzo. Si scattano fotografie per ogni occasione e per ogni occasione se ne fanno centinaia. Che utilizzo se ne fa, poi, di tutte queste fotografie? Vedo in questo una frenesia, un’ansia di eternità, come se si volesse fermare il tempo. Un voler fermare in uno scatto, qualcosa che inevitabilmente non tornerà più. Questa frenesia nasce dalla nostra limitatezza. Costatiamo continuamente (quando ci togliamo le bende delle ideologie) la nostra finitezza, ci scontriamo quotidianamente con qualcosa che non corrisponde mai perfettamente ai nostri desideri più intimi. Difficilmente troviamo qualcosa che ci soddisfa appieno, che ci colmi. Ecco che allora proviamo in tutti i modi, in parte legittimi, a soddisfare quell’ansia di eternità, di pienezza e completezza, inscritta nel cuore di ogni uomo. Internet in questo senso aumenta esponenzialmente ogni nostro istinto, ogni nostra potenzialità, ogni nostro senso. Ci espande in qualcos’altro che non siamo più noi stessi. Ci travolge di una quantità di sensazioni, informazioni ed emozioni che la nostra natura umana non è capace di considerare e recepire. Perché? Perché siamo creature limitate, con cinque sensi, due mani, due occhi, un cervello e una serie di altri organi, tessuti e cellule. Non c’è più nessuno che ci educhi all’umanità. Stiamo cercando di costruire un ennesimo superuomo: l’uomo mediatico, l’uomo elettronico, l’uomo digitale che dir si voglia. Chiediamo sempre di più, che invece di darci ciò di cui abbiamo bisogno, ci forniscono di nuovi gadget, nuove capacità, nuove tecnologie. Piuttosto che colmare, allarghiamo i nostri contenitori, così che diventa sempre più impossibile riempirli, anche perché essi ci snaturano, cambiano la nostra persona. Questo perché si dimentica, sempre, chi è l’uomo: una creatura mortale. Maestri, sacri e profani, che dovrebbero educarci, aiutarci a capire, accettare e vivere i nostri limiti, invece di farlo, aprono anche loro profili Facebook e Twitter, illudendosi e illudendoci che è di questo che abbiamo bisogno, che è questo che cerchiamo. E dopo l’entusiasmo iniziale cosa resta? Il vuoto di un’umanità che cerca sé stessa, ma trova solo la propria immagine convertita in bit. Educare alla nostra finitezza significa aiutarci a capire cosa siamo e cosa possiamo diventare. Ognuno di noi ha delle capacità. Dei sensi di cui ci ha forniti il Creatore, piuttosto che aggiungerne altri fittizi, proviamo a esercitare quelli in noi migliori. Qualcuno ci aiuti a capire qual è la nostra vocazione: operaio o ingegnere, prete o maestro, musicista o scrittore, predicatore o politico, esploratore o sportivo, filosofo o poeta. L’era digitale che stiamo vivendo tende a massificare. È un continuo livellare, come le campionature dei file mp3, tenere ciò che è uguale, condivisibile, comparabile e misurabile e trascurare tutto il resto. Se poi in quel “resto” c’è la propria personalità tanto meglio. Non si sente più l’esigenza di formare uomini, ma di creare consumatori. “Non sappiamo più sbagliare”, non accettiamo di poterlo fare. Anche questo significa amare, ma nessuno più lo dice, perché si coniuga l’amore con il fare attivamente, ma per amare bisogna anche saper subire, soffrire, farsi carico. Una pennellata perfetta non esiste. Anche se dello stesso colore una ha una sbavatura. Un’imperfezione. Ma è quella che rende l’artista unico, riconoscibile. La massificazione ci nasconde. C’è chi ci gode a nascondersi e ne approfitta per immorali traffici. Ma c’è anche chi la subisce. Illuso di trovare visibilità in un tweet, in un post, in un video o altro, va a perdersi nella serie infinita di tweet, post, video o altro. La perfezione è assenza di personalità, di umanità. In questo internet è micidiale. L’uomo e la sua umanità troveranno nuovamente spazio? Vinceranno sull’era digitale? Mantengo molte riserve e qualche speranza. La speranza è in Chi guida le sorti della storia. Le riserve e i timori nel fatto che non ho fiducia nell’uomo. Genesi 3, tutto nasce da lì. In molti, troppi, lo ignorano. Non confido nell’uomo, ma nel Dio che si è fatto uomo. Noi però crediamo e celebriamo l’uomo che si fa Dio.

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